ILENA AMBROSIO e RENZO FRANCABANDERA | IA: Dora Maar, un’icona della Parigi artistica e culturale del ‘900: fotografa, pittrice, amica di Eluard, di Prévert, di Bunuel; amante di Bataille e poi di Picasso, sua musa, sua testimone nella realizzazione di Guernica tramite scatti che hanno fatto storia. Donna realizzata, brillante che di quel genio diventa una vittima abbandonata, fino allo sfacelo del corpo e della mente.
A questa figura così e così tanto intrisa di fascino, storia, arte è stato dedicato, nell’ambito del Napoli Teatro Festival, Ritratto di Dora M. a cura di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Un percorso drammaturgico a tappe che tenta di dipingere l’evolversi esistenziale della donna, dallo scintillio del successo e dell’indipendenza, alla passione folgorante, fino alla follia.
RF: Diciamo che il tentativo è quasi quello di ricavare un archetipo, della donna che visse d’arte e d’amore, quel suggello bohèmien che dall’Ottocento ad oggi non ha ancora perso il suo fascino narrativo, carico dall’ampio potenziale scenico che dall’opera al teatro non è mancato in questo tempo. Donne che hanno vissuto vite straordinarie, farcite spesso di storie d’amore che hanno fatto sognare il mondo, a volte fin quasi alla follia. Da Frida a Tina Modotti, da Simone de Beauvoir a tantissime e tantissime altre, che hanno scelto la vita non facile del seguire la passione. Ricordiamo anche la vicenda di Zelda Fitzgerald, compagna dello scrittore Scott, finita poi in una casa di ricovero manicomiale. Un destino non raro, che anche nella vicenda che ci occupa ricorre.
IA: Al principio c’è già la fine. Dietro un telo che attraversa la scena per metà, una sorta di quinta a vista, si intravede Dora – unica interprete Ginestra Paladino – su un grande letto, quello di un ospedale psichiatrico; l’illuminazione è gelida, sulla musica melanconica di un violino – musiche originali composte da Carlo Boccadoro – la voce di lei si leva allucinata, – come chiunque si aspetterebbe essere la voce (imitata) di una pazza. In preda ai postumi dell’elettroshock Dora cerca di trattenere i suoi ricordi, quelli di tutta una vita e dà inizio al suo racconto. Uscendo dal telo la figura in lunga camicia da notte bianca, capelli sciolti, sguardo perso avanza sulla scena; scena piuttosto suggestiva che pare voler recuperare un’atmosfera vagamente surrealista: un grande tavolo da pranzo e delle sedie, semi distrutti, un baule, una lampada. È lo scenario frammentato della memoria dal quale la protagonista attinge per raccontare la propria vita. Una vita rievocata per episodi dei quali titolo e data sono di volta in volta proiettati sul fondo e sul telo posto insieme a scene storiche, quadri, foto che rievocano l’ambientazione storica contestualizzando e dando un supporto visivo e sonoro al racconto a tratti lucido poi, via via, più delirante – quanto meno nei toni – della protagonista.
RF: Questi elementi scenici, parti di un salotto in rovina che occupa il primo piano dello sguardo, paiono finiti sotto terra, come sepolti da una frana, facendo emergere pochi elementi, pezzi di mobilio. Erika Carretta, scenografa e costumista sensibile, riesce a definire, in uno spazio non molto profondo, abitato da un secondo piano con il letto del nosocomio, il senso di un passato sprofondato e travolto dagli eventi. L’incombere del destino della malattia e la morte di fatto abbracciano e intonano la narrazione di questa vita, costretta a muoversi fra le macerie che in fondo sono quelle di un’epoca connotata anche dalle vicende belliche. Henriette Markovitch, questo il nome di battesimo della nostra protagonista, prima di conoscere e condividere un periodo piuttosto lungo con Pablo Picasso che la ritrasse anche nel celebre Donna che piange, visse fra gli anni 20 e 30 del secolo scorso come fotografa, frequentando i surrealisti parigini come Ray ed essendo lei stessa artefice di scatti di grande qualità amati fra gli altri da Cartier-Bresson, come si ricorda nel libro Dora Maar With And Without Picasso: A Biography, di Mary Ann Caws del 2000 (qui la recensione sul Guardian, non a caso intitolata La dea torturata) e il più recente volume Dora Maar: Paris at the time of Man Ray, Cocteau and Picasso di Louise Baring edito da Rizzoli. Molte di queste foto erano state dimenticate e ritrovate insieme alla sua macchina fotografica nel suo appartamento parigino – a questo si riferiscono le pregevoli videoproiezioni che fanno da contrappunto alla narrazione – dopo la morte avvenuta in età molto avanzata, nel 1998 a 89 anni.
La vita dell’artista è fatta di momenti leggendari come quello dell’incontro con Picasso in un bar, con lei intenta a fare il gioco ardito del coltello che colpisce fra le dita aperte della mano. La donna si taglia, Picasso le chiede il guanto insanguinato. Insomma pare una vicenda di quelle segnate dal destino e dall’estasi del tormento. Ma effettivamente la vicenda sentimentale fra i due, vide sempre il pittore essere assai prevaricante verso la Maar, costretta anche a cimentarsi con la pittura, che non era il suo linguaggio vocazionale, evidentemente. Dovette addirittura ricorrere alle cure di Jacques Lacan. Sono cose che la drammaturgia di Fabrizio Sinisi ricorda con diacronica puntualità, forse anche troppa, per la ragionevole preoccupazione di omettere qualche elemento cardine di una vita così ricca e di non schiacciarla solo sulla relazione con il pittore, facendola uscire dal mito della vita a fianco del grande artista, per farne emergere anche dolori e cesure. il testo finisce tuttavia per perdere un filo conduttore di tenacia sufficiente a rendere poi possibile lo sganciarsi dal biografismo.
IA: L’operazione avrebbe potuto risultare affascinante viste le potenzialità e la molteplicità di elementi messi in gioco: la scenografia sfruttata pienamente dall’interprete che a sua volta muta posa a ogni nuovo ricordo, usa gli oggetti a disposizione, si cambia d’abito in scena; la regia luci che segue con attenzione la figura dell’attrice; e poi la musica e le proiezioni; ma, soprattutto, la complessità drammaturgica del soggetto che intreccia vita individuale, storia, arte, psicologia. Insomma, di carne sul fuoco ce n’era eppure pare rimanere tutto statico, appiattito. Lo stile recitativo più che antinaturalistico – come da dichiarazioni di regia – risulta invece affettato, monotonale rendendo davvero arduo seguire le tante – tantissime – parole del testo.
RF: Penso che le scelte sullo stile del recitato e sul complesso di segni e movimenti possano essere utilmente riviste dopo questo debutto per donare la necessaria tridimensionalità ad un’operazione che diversamente rischia di rimanere fortemente schiacciata sulla vicenda, in un insieme di gesti che diventano un po’ troppo gabbia, complice anche la macchina scenica dotata di piccole ma vincolanti suggestioni tecnologiche come i microfoni panoramici sotto il tavolo sepolto, che amplificano passi, suoni e gesti dell’interprete. E certamente l’idea è quella che l’amore per l’arte e l’artista finisca, nel caso della Maar, per trasformarsi in una gabbia, ma l’anima profonda e tormentata di questa donna non traspare ancora con la profondità necessaria. In un contenitore scenico comunque interessante, l’uccellino in gabbia deve ancora acquisire la sua umanità più sincera, meno “artefatta”, che è poi sicuramente l’intenzione a cui mirano sia il testo che la regia di Francesco Frongia, ma che non ci arriva ancora per il tramite dello strumento scenico più importante in questo frangente, che è l’attrice.
IA: Insomma più che un ritratto, fatto di colori, sfumature, prospettive, quello che di Dora Maar si è dato in questo lavoro sembra la lettura di qualche pagina un testo, certo forse un po’ eccentrico, di storia.
RITRATTO DI DORA M.
con Ginestra Paladino
progetto a cura di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
parole di Fabrizio Sinisi
musiche originali Carlo Boccadoro
scene e costumi Erika Carretta
regia Francesco Frongia
produzione Teatro Filodrammatici di Milano
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia
Napoli Teatro Festival
Teatro Nuovo 16 giugno 2018