ANTONIO CRETELLA | Verso la metà degli anni Ottanta cominciò ad andare in onda negli USA una fortunata sit-com ambientata negli anni ’50/’60 dall’iconico titolo “Happy days“, Giorni felici. Poco tempo dopo arrivò nelle sale “Ritorno al futuro” di Robert Zemeckis, che lanciava uno sguardo a quegli stessi anni attraverso la fantascienza. Il minimo comun denominatore delle due opere era lo sguardo nostalgico velato di romanticismo con cui il passato prendeva forma agli occhi dei contemporanei, una sorta di mitizzazione del passato che, a ben vedere, risponde allo stesso schema antropologico di rielaborazione in chiave mitica del vissuto collettivo che ha prodotto tanto i poemi omerici quanto una sit-com sulla famiglia americana. “Che fine hanno fatto i vecchi valori su cui potevo contare?” canta ironicamente Peter Griffin nella sigla di Family Guy di Seth McFarlane, che di quella mitografia americana si prende gioco: già, che fine hanno fatto? Si sono forse rifugiati nell’intermondo di una fittizia memoria collettiva che costituisce il succo narrativo di cui si nutre l’insicurezza del presente.
Zygmunt Bauman la chiama “retrotopia”, un’utopia non diretta al futuro, ma al recupero di un passato quasi acriticamente immaginato come migliore dell’oggi, che ne rappresenta il decadimento, la scoria putrefatta, il cadavere ancora caldo. Non che il fenomeno sia nuovo: il rifugio pastorale e mitico degli Arcadici del ‘700 o l’esaltazione del Medioevo dei Romantici rispondevano allo stesso bisogno, o il costante richiamo all’Impero Romano del Fascismo che operava nell’ambito di una riscrittura del passato tesa alla manipolazione di un presente di insoddisfazione e di instabilità, proponendo una palingenesi, un colpo di spugna, un rintanamento nelle bolle temporali dei giorni felici protetti ora dallo struggimento della poesia evocatrice, ora da videogiochi a 8 bit e musica disco, ora da muri di confine, fili spinati, dogane etiche e l’odore di gas nervino di quando c’era lui.