DOMENICO COLOSI | “Non so quale sarà il futuro del cinema. Viviamo in una società schiava delle immagini, ma in pochi sanno tradurre queste suggestioni in un discorso razionale: un analfabetismo visivo diffuso ormai ad ogni latitudine, con le scuole colpevolmente assenti”. Pochi preamboli per Martin Scorsese nell’evento cardine della XXXII edizione del Cinema Ritrovato di Bologna: in un Teatro Comunale gremito di studenti, appassionati e giornalisti, il cineasta statunitense si racconta per oltre un’ora tra aneddoti personali e ambizioni programmatiche; ad intervistarlo, dopo i saluti istituzionali del direttore della Cineteca Gian Luca Farinelli, i registi Matteo Garrone, Alice Rohrwacher, Jonas Carpignano e Valeria Golino.
“La consuetudine del Novecento è stato il cinema come esperienza collettiva; oggi, tuttavia, siamo di fronte a qualcosa di nuovo e inaspettato, come ogni cambiamento in seno alla società. D’altronde si è modificata nel tempo anche la rappresentazione delle tragedie scespiriane, dalle caotiche messinscene delle origini alle lunghe e rigide declamazioni odierne. Avanza la tecnologia, ma resterà sempre l’esigenza di raccontare storie con ogni mezzo a disposizione. Resto comunque dell’idea di sostenere l’idea del cinema delle origini, difendendo le sale e quel rito che coinvolgeva intere famiglie. Lo dico a ragion veduta: i film sono stati la mia salvezza quando ero un bambino asmatico cui era vietato persino ridere troppo. Potrà sembrare strano, ma ho conosciuto gli animali nelle sale cinematografiche, poiché avevo il divieto assoluto di avvicinarmi a cani o gatti per motivi di salute”.
Inevitabile un passaggio sulla svolta digitale: “La pellicola può richiedere lunghi interventi di restauro, ma resta un oggetto fisico con un ciclo di vita ben preciso. Per paradosso immagino maggiori rischi per il digitale, poiché si susseguono senza sosta nuove tecnologie che potrebbero rendere invisibili film di appena dieci anni fa. Quando lavoro scelgo sempre le soluzioni più opportune, senza inutili nostalgie: è sicuramente più comodo girare scene notturne a New York con il digitale, che posso tranquillamente alternare con il 35 o il 16 mm in base al budget e alle esigenze di produzione”.
Parole che si ricollegano al tema di fondo del festival bolognese: “Negli anni Settanta cominciai ad interessarmi con George Lucas, Steven Spielberg e Paul Schrader alle condizioni dei film che avevo amato in gioventù. I laboratori degli studios versavano in condizioni pietose, non vi era una cultura archivistica avanzata: con una vena sicuramente naif nacque la Film Foundation, che subito legammo al circuito delle cineteche. Un lavoro immane, che oggi finalmente incontra sale stracolme e il pieno consenso da parte degli addetti ai lavori”.
Nato da genitori provenienti da Polizzi Generosa, piccolo borgo in provincia di Palermo, Martin Scorsese ha sempre rivendicato le proprie origini italiane: “Credevo di essere immerso nella cultura di Dante e Manzoni, ma la realtà dell’East Side era chiaramente tutta un’altra storia. Il cinema neorealista di Rossellini e De Sica mi ha fatto comprendere per la prima volta il senso profondo del mio paese di origine. Avevo l’ambizione di voler vedere sul grande schermo la vita quotidiana: per il cinema italiano spendo anche il nome di Pasolini, mentre Elia Kazan mi ha insegnato nei particolari il mondo della working class, le dinamiche dei miei vicini di casa. La svolta è arrivata incontrando John Cassavetes: il senso di libertà di capolavori come Ombre e Volti è stata probabilmente decisiva per i miei esordi. Cassavetes ha poi insistito affinché realizzassi Mean Streets: in un certo senso è stato lui a tenere a battesimo il mio cinema”. Poche le idiosincrasie di un personaggio unico nel panorama cinematografico internazionale: “Detesto la fase di promozione del film e tutti i feticismi dei direttori della fotografia riguardo alla luce. Ho lavorato con i migliori in questo campo, ma è un argomento che mi interessa solo marginalmente: l’unica luce che so riconoscere è quella della Cattedrale di St. Patrick a New York, un luogo in cui ho speso gran parte della mia infanzia. Nutro invece un amore viscerale per il montaggio di un film: resto immerso per giorni in un mondo quasi irreale valutando ogni singola opzione fin nei minimi dettagli”. Consequenziale la domanda sul rapporto con gli attori: “La mia conoscenza è sempre stata prettamente cinematografica; non mi interessavo di teatro da ragazzo poiché non avevo abbastanza denaro per frequentarlo. Credo che Roberto De Niro sia stato l’unico attore cui non ho mai dovuto dare eccessive spiegazioni: conosceva perfettamente il mio mondo di provenienza, lavoravamo quasi in telepatia”.
La conclusione è riservata ai maestri della settima arte: “Ad inizio carriera replicavo inevitabilmente le loro suggestioni, mi ispiravo a John Ford, Orson Welles, lo stesso Kazan. Poi ho assunto uno stile personale, riservandomi varie citazioni all’interno dei miei lavori. A metà della realizzazione di un film non so mai quale sarà la percezione del pubblico: l’esperienza mi ha insegnato che all’uscita in sala si accompagna l’odio da parte di tutti. In qualsiasi campo, avrai sempre il mondo contro; solo due o tre persone capiranno nel profondo il senso del tuo lavoro. E io continuo per loro, affezionandomi al mondo che lentamente vado costruendo”.
Bologna, Teatro Comunale, 23 giugno 2018