GIORDANA MARSILIO | Si può unire il concetto di arte con con quello di morte simbolica? Era il filosofo e scrittore francese Maurice Blanchot che coniugava nell’idea stessa di opera d’arte il concetto di morte. Donando la sua opera al mondo, una parte dell’artista va via, muore con essa. In Giudizio. Possibilità. Essere., presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto dal 30 giugno con repliche fino al 15 luglio, Romeo Castellucci si interroga proprio sul ruolo dell’artista e su quello che potrebbe accadere se egli, in quanto fonte creativa, metaforicamente si estinguesse.
Lo spettacolo si svolge nella palestra di una scuola a San Giovanni di Baiano. Ciò che noi oggi chiamiamo palestra, era chiamata nell’Antica Grecia ginnasio, parola che deriva dal termine greco γυμνός che letteralmente vuol dire ‘nudo’. Qui i giovani venivano educati all’attività fisica ma anche alla filosofia e così l’etimologia del termine non indica una nudità materiale, ma una nudità di spirito, nel senso di origine, la stessa nudità pura e nuova che vivono i nascituri. Così il ginnasio, e qui la palestra, assume simbolicamente il significato di una fucina creativa, in cui il logos e il corpo si incontrano per fondersi.
Proprio tali aspetti possono essere decodificati nello spettacolo prodotto dalla Societas, in cui l’estetica proposta da Castellucci si volge alla ricerca quasi maniacale della forma perfetta, della minuziosa simbiosi tra parola e gesto. Quest’ultimi scandiscono il tempo, ricreandone una dimensione lenta ed eterea.
Ad accogliere lo spettatore cuscini bianchi per i salti, posti sul pavimento come a formare una platea, e due ragazze sedute a terra davanti ad un proiettore. Con l’aiuto delle slide spiegano un fenomeno molto lontano. Il telescopio Chadra 93 della Nasa ha scoperto che alcuni raggi x non venivano risucchiati dal buco nero ma che eseguivano ‘salti’ che si traducono poi in rumore, in un suono non udibile all’orecchio umano. Ciò fino a quando Edward Morgan, uno scienziato del MIT “Massachusetts Institute of Technology“, è riuscito a tradurre questi salti in frequenze percepibili dall’orecchio umano. Le due ragazze portano via il proiettore e spariscono. In seguito, un rumore forte e fastidioso che simula questo fenomeno, si affaccia nella palestra, diventando sempre più intenso, fino a far vibrare le finestre della palestra.
Delle fanciulle, vestite con abiti Amish, una alla volta, entrano e con una forbice si tagliano la lingua, condannandosi per sempre al silenzio. Gli abiti, che richiamano una realtà rurale tipica delle campagne americane e del rigore religioso, ricorda l’atmosfera già analizzata da Castellucci in Democracy in America(2018), ispirato dall’omonimo testo di Alexis de Tocqueville. Tutte le quattordici fanciulle in scena perderanno così la parola e si riuniranno in un cerchio, mano nella mano, fino a quando un cane nero entrerà in scena e mangerà i resti delle loro lingue. Questa scena non può non farci pensare alla Tragedia Endogonidia di Londra (2003) nella quale Castellucci ripropone il taglio della lingua, gesto sempre legato al concetto di silenzio e alla privazione della parola, topos caro al regista.
In questo spettacolo la luce artificiale non è necessaria sicché quella naturale, che filtra attraverso le grandi finestre, rende l’ambiente ancora più reale e meno costruito. Castellucci è solito lavorare con luci scure, contrasti tra buio e fonti luminose chiarissime, quasi ad arrivare al bianco, giocando spesso con dei filtri sul palco che separano lo spettatore dagli avvenimenti in scena. Per questo motivo, Giudizio. Possibilità. Essere. risulta all’apparenza esteticamente meno ‘spettacolare’, ma in realtà le immagini ricreate, proprio per via dell’ambientazione ruvida ed estremamente concreta, fa sì che questa storia colpisca lo spettatore ancora di più, coinvolgendolo vigorosamente in questa realtà, mista tra storicità, mito, letteratura e modernità. A rafforzare questo aspetto il fatto che il pubblico sia seduto per terra, accorciando di conseguenza la distanza con le interpreti, che a loro volta rendono il senso di coralità, compiendo un doppio lavoro: non solo quello dell’interpretazione, ma anche quello della puntualità dei gesti e dei movimenti. A spiccare sono le quattro attrici principali (Silvia Costa, anche assistente alla regia, Laura Dondoli, Irene Petris e Alice Torriani), le uniche a parlare, talvolta in playback. Le musiche dello storico compositore della Societas, Scott Gibbons, che si alternano con canti islandesi, incorniciano lo spettacolo senza avere un reale ruolo di arricchimento o centrale rispetto a spettacoli del passato, in cui la mancanza di parti didascaliche hanno lasciato posto alla musica. Così, qui, la musica evidenzia alcuni momenti o li accompagna senza però diventarne protagonista.
Lo spettacolo è tratto dal testo La morte di Empedocle del filosofo e scrittore Friedrich Hölderlin (per la traduzione di Cesare Lievi), che lo scrisse tra il 1797-1800, infine pubblicato dopo la sua morte, avvenuta nel 1843. Hölderlin, autore fragile, soffriva di problemi psichici e decise quindi di rinchiudersi in una torre e di farsi accudire da un falegname, che lo curò fino alla fine dei suoi giorni.
Il cerchio delle fanciulle si interrompe al suono di una palla che rimbalza in una palestra, suono che ricorda l’immagine della palla da basket già presente in Purgatorio (2008) e in Tragedia Endogonidia di Roma(2003). Le ragazze assumono delle pose fisse, ricordando delle composizioni scultoree, ferme, immobili. Ora la storia può cominciare. Si narra della grandezza del filosofo Empedocle, della potenza delle sue parole e di come questa figura si avvicinasse a quella di un dio. In un cambio repentino il racconto si trasla alla caduta di questo personaggio. Così, delle quattordici fanciulle in scena, solo quattro parlano ed indossano una fascia rossa sul braccio sinistro (elemento, anche esso già visto nella Tragedia Endogonidia di Cesena del 2002). A turno si passano una corona d’alloro dorata, ancora oggi simbolo che raffigura, più in generale, il successo, la vittoria e la pace, e più nello specifico le qualità artistiche e poetiche. Chi la indossa personifica, infatti, la figura di Empedocle, qui metafora del ruolo dell’artista. I toni si fanno più accesi, due bandiere, che simboleggiano i tredici Stati Confederati d’America, vengono appese, le ragazze hanno dei fucili e delle bandane, diventano guerriere, poiché in fondo sono in una palestra, in un ginnasio, in cui le giovani leve vengono educate ed allenate alla vita, alla guerra.
Questo aspetto combattivo nella messa in scena di Castellucci non sorprende se si analizza da vicino l’opera di Hölderlin che descrive il personaggio di Empedocle come guida spirituale che si aggira nelle montagne e che vuole portare la società alla rinascita, a una sorta di ribellione. Infatti, per Hölderlin, il concetto di rinascita, proposto da Empedocle ad Agrigento, coincide con l’idea della Rivoluzione Francese. Ed è qui, in un contesto guerrigliero, che Empedocle muore, decide liberamente di gettarsi all’interno dell’Etna e di fondersi con la Natura.
La figura del vulcano è metaforicamente utilizzata per esprimere l’idea della forza creativa che da uno stato di quiete inaspettatamente erutta. Lo stesso avviene per l’artista, il quale, colto da un flusso creativo, traduce questa sua forza in arte ed irrompe in lui un’energia pari ad un fiume in piena. Cosa succede, però, quando l’artista perde il suo estro, perde la sua sorgente e, ancora peggio, la parola? Così l’inizio dello spettacolo fa da prologo alla domanda centrale che si pone Castellucci: se l’artista perde il logos, la creatività e quindi il suo essere, cosa avviene dopo? Solo la morte o può avvenire una rinascita? Il buco nero iniziale rappresenta quindi un luogo in cui né l’arte, né la creatività, né il logos possono più esistere.
La messa in scena presenta parti didascaliche tratte da La morte di Empedocle di Hölderlin. Altre rimangono più oscure, come ad esempio la scelta di voler appendere bandiere degli Stati confederati d’America o il voler far vestire le attrici con abiti Amish, nonostante si stia parlando della Grecia Antica. Benché ci siano difficoltà a decodificare alcune scelte, lo spettacolo si presenta equilibrato poiché, come spesso accade nelle creazioni della Societas, lo spettatore viene posto davanti a un’onda di emotività, di stimoli e riflessioni. Come un puzzle Castellucci pone i suoi pezzi sul tavolo, l’uno dopo l’altro, anche in ordine non sequenziale, dando la possibilità a chi assiste di raccoglierli e ricomporli per creare un’unità integra e coerente. Infatti, analizzando profondamente lo spettacolo, tutti le parti, le scene e le immagini si ricompongono in una storia che trova linearità, ovvero il riflettere sul ruolo dell’artista e sulla morte della creatività.
Nello spettacolo, come detto, si ritrovano molti riferimenti ad opere passate di Castellucci. Il regista si pone all’interno della riflessione fra Arte, teatro, vita, interrogandosi su se stesso e cercando di darsi risposte attraverso la figura dell’Empedocle di Hölderlin, visto come metafora dell’artista, che in preda alla decostruzione del suo ruolo, decide di gettarsi nel luogo di fonte creativa ardente: il vulcano. Già ne aveva parlato in occasione del discorso fatto in occasione del Leone d’Oro conferitogli da Biennale di Venezia, arrivando a portarvi con lo sguardo al pensatore di fronte al ruolo immortale dell’arte, dell’assoluto, della morte, aspetto approfondito qui in Giudizio. Possibilità. Essere. con il buco nero, un luogo in cui un’artista non può più dire nulla. Però, forse, nell’arte si può sperare in una rinascita?
Il filosofo Empedocle sosteneva: “Non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate, ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini. “ Lo stesso concetto viene espresso dall’Empedocle di Hölderlin e da Castellucci, che prima della scena finale – forse la più emblematica dello spettacolo – fa pronunciare ad una delle fanciulle (Irene Petris) delle parole che esplicano come la morte e la vita siano mescolate, unite da un filo sottile ma percettibile, poiché l’una non può esistere senza l’altra. La morte dà così uno scopo al vivere stesso. Sarà poi il filosofo tedesco Heidegger, grande conoscitore e lettore di Hölderlin, a vedere nel tempo limitato dell’esistenza umana, ovvero nella morte, il senso più vero e reale della vita.
Così, dopo la morte, anche artistica, c’è la rinascita. Il gruppo di attrici si unirà in una sorta di cerchio che simula il passaggio del nascituro alla (nuova) vita. Una dopo l’altra, come un feto, usciranno da questo cerchio, verranno denudate e qui torna il concetto di γυμνός, inteso come nudità primordiale ed originale. Le donne si incammineranno verso la vita, verso la luce, verso l’arte.
Giudizio. Possibilità Essere.
Esercizi di ginnastica su “La morte di Empedocle” di Friedrich Hölderlin da svolgere in una palestra.
regia e idea di Romeo Castellucci
assistenza alla regia Silvia Costa
con Silvia Costa, Laura Dondoli, Irene Petris e Alice Torriani
traduzione testo: Cesare Lievi
canti popolari islandesi e musica finale di Scott Gibbons
e con Vittoria Chiacchella, Federica Crispini, Evelin Facchini, Caterina Fiocchetti, Viviana Mancini, Maria Irene Minelli, Daphne Morelli, Elisa Turco Liveri, Cecilia Ventriglia, Giulia Zeetti.
cura del suono Michele Braga
attrezzeria e costumi Carmen Castellucci
responsabile di produzione Benedetta Briglia
organizzazione e promozione Gilda Biasini, Giulia Colla
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
produzione Societas
Visto il 1 luglio a San Giovanni di Baiano al Festival dei Due Mondi di Spoleto