CHIARA PALUMBO | Cos’è e cosa vuole essere il teatro oggi? Come conciliare l’esigenza sempre più crossmediale e sfacciatamente contemporanea che il pubblico dei nativi digitalli sente nei confronti dell’oggetto artistico con la natura vitale, corporea, estemporanea che caratterizza il teatro per sua stessa definizione, e insieme la sua capacità di parlare al presente, sul presente, del presente, che sola può mantenerlo strumento vivo? È questa la sfida che il teatro si trova di fronte, e alla quale i giovani autori ed interpreti sono chiamati a trovare una propria originale strada per rispondere.
E – in un ambiente che corre spesso il rischio di avvitarsi su se stesso e scoprirsi autoreferenziale – anche la scoperta della suggestione originale può richiedere di spingere lo sguardo verso orizzonti al di fuori di quelli abitualmente esplorati, verso lidi anche spazialmente più lontani.
Ad esempio, l’Iran dove è nato lo scrittore Nassim Soleimanpour. E dal quale, per lunghi anni, non gli è stato permesso di uscire. Una prigionia fisica che non si specchiava, tuttavia, in quella intellettuale. Ed è da qui che il giovane drammaturgo comincia a fare esplodere, nemmeno trentenne, le possibilità del teatro. A 29 anni, Soleimanpour scrive Coniglio Bianco/Coniglio Rosso. Scrive, e affida ad altre voci le sue parole, restituendo alla scena la sua funzione di cassa di risonanza, di luogo del quale le identità possono essere create, e ricomposte anche lontano dal corpo che le esprime. A patto della piena sincerità. Quella che può essere ottenuta solo affidando a un attore un plico di fogli che non ha mai visto nè deve vedere prima che le luci della ribalta si accendano, e che l’interprete unico e irripetibile di quella sera è costretto a seguire alla lettera, fino a svelare – e la sospensione dell’incredulità è talmente ben costruita da indurre a crederci davvero – fino a che punto la sincerità che è costitutiva del mestiere dell’attore, che è si ypocritès, ingannatore, ma recitando non può mentire, lo possa spingere a mettere in discussione persino la propria stessa incolumità.
Così, le conseguenze perniciose della censura non sono più retorica da impegno bolso, ma pratica messa sulla scena e quindi non solo esposta, senza filtri, allo sguardo dello spettatore, ma anche alla sua stessa azione, che lo chiama non più soltanto a osservare, ma a essere non solo parte in causa, ma correo impotente della tragedia che si può consumare quando scena e vita non sono più scisse.
Una via nuova che ha spinto Nassim Soleimanpour ad apportare una propria (piccola, grande? Le proporzioni sono ancora tutte in via di definizione) rivoluzione, quando le sue parole hanno preso le voci di migliaia di attori, anche di fama internazionale, tra i quali basti citare a titolo di esempio Whoopi Goldberg. Una fama debordante, che ha potuto proiettare lo scrittore da Shiraz al mondo.
Anche fisicamente, perché quando si esce da una casa prigione con uno strappo altrettanto violento, può accadere di non avere più i passi per tornare indietro. Di scoprirsi “stranieri nella propria lingua”. E così, ad avere bisogno di fare, di nuovo, del teatro il luogo di scoperta della propria identità.
Per questo, nel ridotto del teatro delle Muse di Ancona – nell’ambito del quarantennale di Inteatro Festival di Marche Teatro – è andato in scena, in prima nazionale, il secondo capitolo del viaggio dell’autore iraniano attraverso di sè, il teatro e le sue possibilità, che non poteva che intitolarsi Nassim. Se il primo infatti voleva essere una spinta verso l’esterno, questo secondo spettacolo, cui la regia attenta e in sottrazione di Omar Elerian offre una maggior finezza espressiva, è una spinta al ritorno. La concretizzazione scenica della nost-algia. O forse, più precisamente, con la definizione creata da Francesca Serafini e Giordano Meacci, della emmenalgia. Il dolore di ciò che non ha potuto continuare. Non certo l’obbligo alla stasi, ma la possibilità di potersi sentire radicati. In un luogo e in un contesto, come quello familiare, a cui – oggi – è impossibile comprendere il proprio stesso figlio.
Ed ecco, in uno spazio scenico ridotto all’essenzialità di un tavolo e un microfono ad asta, che Soleimanpour ha ancora bisogno di chi si faccia voce per lui, ma non più – soltanto – per trovare una lingua, ma per ritrovare la propria. Restano, in questo lavoro, i punti fermi del teatro dell’autore iraniano. Su tutti l’esaltazione della natura evenemenziale del teatro. Inteso come “actual” irripetibile e unico. Anche in questo caso, l’attore arriva sul palcoscenico del tutto ignaro, dopo che gli è stata negata ogni possibilità di prepararsi a ciò che dovrà vivere. E sarà proprio questa sua impossibile preparazione a definire l’ossatura di ciò che avverrà.
Come già in Coniglio Bianco/Coniglio Rosso, l’attore è chiamato a leggere, tutto ciò che gli viene mostrato, e a costruire intorno al solco inderogabile della parola scritta la variabilità dell’apporto della propria personale individualità che si fa tramite di un’altra, quella dello scrittore. Un suo simile del quale specchiare il vissuto. Si esprime così, esponenzialmente, la possibilità del Teatro post drammatico come lo teorizza Hans-Ties Lehman nel volume omonimo: “un nuovo teatro nel quale le figurazioni drammatiche potranno ritrovarsi, dopo che dramma e Teatro si sono tanto allontanati”. Una figurazione che coincide con la figura dell’autore, del drammaturgo, o – preferisce Soleimanpour – dello scrittore, riportato prepotentemente al centro della costruzione drammaturgica in tutta la forza della sua esistenza concreta, corporea, che, per esprimersi, sceglie però soltanto la scrittura. È attraverso di essa ed esclusivamente per suo tramite che Nassim affida all’attore il compito: recitare il suo testo per sua madre, in Iran, nella sua lingua madre, il farsi. Così, la sfida dell’attore (e dello spettatore, chiamato nuovamente alla partecipazione attiva) è duplice. Confrontarsi con una lingua che è – quasi inevitabilmente – del tutto ignota, sperimentando, di nuovo violentemente, a propria volta la percezione dello sradicamento, della necessità di esprimere i sentimenti più forti e autentici in un codice che gli è estraneo, e contemporaneamente scoprire attraverso la possibilità dell’incontro la facilità di costruire ponti, e di empatizzare con l’altro: perché i sentimenti smossi da “delam tang shodeh”, che in italiano, letteralmente vale un poetico “il mio cuore è stropicciato”, ed emotivamente un più prosaico e potente “mi manchi”, sono uguali ad ogni latitudine. Se però “il cuore di uno scrittore batte sempre nella sua lingua madre”, esistono modi non scontati di dirlo. Modi che sfruttano appiano le possibilità che il teatro oggi sa offrire, ed in particolare quelle che sono elemento naturale per i giovani autori, tra i quali l’iraniano classe 1982 può ancora rientrare.
Protagonista è qui soprattutto il video, in due sensi: da un lato, tramite un sovrapporsi di ripresa e spazio teatrale, che esplora attraverso la telecamera il teatro nei suoi spazi fuori dal palcoscenico, anche quelli abitualmente celati alla vista dello spettatore, strizzando l’occhio a Birdman di Inarritu e superandolo. D’altro canto Soleimanpour si interroga sul senso della crossmedialità a teatro: l’attore è chiamato a dar voce a ciò che vede a video, ma attraverso di esso, quale sguardo sta assumendo, e quale parte interpreta? La propria di “supermarionetta” post craigiana agita dallo scrittore? Quella dello scrittore stesso, che seguiva lo sguardo della mamma che gli leggeva le storie tenendolo sulle ginocchia? Quello della madre che gli insegna il mondo insegnandogli le parole nella sua lingua? Soleimanpour apre, attraverso questo costante sovrapporsi di piani e di scatole cinesi una dentro l’altra una quantità di riflessioni pressochè sterminata sulle possibilità e le prospettive del teatro, costruendo, della grande complessità teorica che lo sostiene, una piccola e commuovente storia, semplice, come lo sono le favole che ci hanno cullato tutti da bambini, e che sa emozionare perchè “come bambini siamo innamorati delle storie”. Una architettura ricca dalla quale non resta esclusa un’altra delle più urgenti domande del teatro: a chi parliamo? Come si porgono le storie che ci riguardano tutti e che solo il teatro, costituito dall’incontro – per usare una definizione di Lella Costa – “tra uno spettacolo vivente e un pubblico altrettanto vivente” può portare in scena? Delle cinque interpretazioni differenti cui cinque interpreti hanno dato vita (Prima delle due attrici che hanno chiuso le repliche Neri Marcorè, Marco Baliani e Arturo Cirillo) La storia di Nassim va raccontata con la padronanza, sciamanica e avvolgente, che le offre l’interpretazione della stessa Costa, il 30 giugno, materna, abituata a confrontarsi con le letture a vista, e a cui il mestiere ha attribuito padronanza dell’improvvisazione anche se caratterialmente le sarebbe distante? Cosa può invece offrirle la camminata sul filo che il giorno dopo è l’interpretazione di Lucia Mascino, che si lascia spiazzare e travolgere dal non sapere ciò che la aspetta, sostituendo all’immagine della madre sciamana quella della sorella, che nei suoi dubbi – anche divertenti – specchia quelli di chi la osserva assieme alle sue emozioni, che scoppiano in un singulto di commozione che non può essere trattenuto? C’è tutto questo e molto altro, in un testo che esigerebbe il totale silenzio del critico per poter essere guardato (così come non possono esisterne immagini ufficiali), e che ha il merito, soprattutto, di non offrire risposte, ma spingere a uscire dal teatro con la domanda più importante che il teatro deve porsi: In quale direzione andare? Forse, anche per questa domanda, non esiste risposta.