ILENA AMBROSIO | La parola: la facoltà più nobile dell’uomo. La parola è espressione, libertà e, soprattutto, comunicazione, dialogo, quel confronto che induce e conduce alla comprensione, all’incontro con l’Altro.
Pare poggiarsi saldamente su questa convinzione Lettere a Nour di Rachid Benzine, in scena al 61esimo Festival di Spoleto nell’adattamento teatrale di Giorgio Sangati. Islamologo e filosofo francese di origine marocchina, Rachid Benzine persegue, con la sua attività e i suoi lavori una missione: aprire le porte dell’islamismo nel duplice senso di accoglienza dell’Altro ma anche di esplicazione all’Altro, di chiarificazione di ciò che di oscuro può apparire in una dottrina troppo spesso valutata sulla base di luoghi comuni, fraintendimenti o, peggio, sulla scia di eventi che ne restituiscono un’immagine deformata da fanatismo e violenza.
Proprio in risposta ad alcuni tra i più terribili di questi eventi, gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, nasce Lettere a Nour. Un dramma epistolare tra un padre, professore universitario, teologo islamico illuminista e progressista – alter ego dell’autore – che legge, pratica e insegna la propria religione come messaggio di pace e amore, e sua figlia Nour, brillante studentessa che a vent’anni decide di raggiungere l’Iraq per amore di un musulmano integralista e di unirsi alla lotta jihadista.
Lungi dal limitarsi al piano familiare la corrispondenza si fa via via sempre più problematica, subentrando questioni dottrinali, politiche, la macro-storia che, in più di due anni – dal 13 febbraio 2014 al 23 novembre 2016 –, coinvolge vorticosamente le vite dei personaggi.
Lo scontro, allora, diventa quello, inconciliabile, tra due interpretazioni del reale, tra due sistemi di valori, tra opposte concezioni di ciò che è giusto e sbagliato.
Sangati trasferisce tutto questo in un universo drammaturgico che pare restare sospeso, come a voler ricreare lo spazio ibrido della corrispondenza epistolare che – mancando la presenza viva del corpo e della voce – è e, insieme, non è dialogo. Qui, invece, quella presenza c’è ma non implica un reale contatto; i due personaggi si dicono e ci dicono, a turno, le proprie missive senza interagire: la distanza spaziale e quella ideologica continuano a dividerli.
Distanza che si traduce anche nel modo di abitare lo spazio scenico. Al centro di una stanza ampia e profonda dalle pareti come carbonizzate sta – in tutto il senso di anti-dinamismo che questo verbo implica – il padre, seduto sulla sua poltrona circondata di libri: la fermezza adamantina della ragione, le certezze acquisite con lo studio, il rispetto profondo della propria fede, tutto è in quella posizione. Sul fondale e sulla sinistra due aperture lasciano entrare la luce, una luce calda e intensa come quella del sole del deserto – il gioco di luci e ombre realizzato da Vincenzo Bonaffini si rivela fondamentale veicolo di senso –; da lì Nour, in arabo “luce”, entra ed esce, declamando in piedi le proprie lettere, aggirando la seduta del padre, rivolgendosi a lui, toccandolo. In opposizione alla deprecabile – secondo il suo punto di vista – apatia del padre, la ribellione di lei e di ciò che lei rappresenta, il desiderio di cambiamento, di lotta.
Un tumulto, il suo, che trova corrispondenza sonora nelle musiche del Trio Mothra che, in penombra, agli angoli della scena, accompagna i racconti prima entusiastici, poi rabbiosi e violenti, infine orribilmente dolorosi della ragazza, in una partitura che, a metà tra tradizione e modernità, fornisce una coerentissima lettura sonora della metamorfosi della ragazza.
Da ragazzina in abiti occidentali e hijab, entusiasta e innamorata, a moglie fedele – al marito e alla lotta – in niqab e tunica neri, a madre, Nour è sempre la figlia di suo padre ma non più quella che lui ha formato con i propri ideali; è un’altra, ha compreso la verità, dice, la necessità della lotta, dell’annientamento degli infedeli.
Ma quella non è quella la verità. L’ultima Nour è una donna delusa che ha aperto gli occhi sull’orrore che la circonda perdendo la fede, una moglie tradita e maltrattata, una madre che, in cambio della salvezza della figlia, si fa kamikaze ma che, tuttavia, sceglie di ribellarsi a quella costrizione schiacciando il detonatore lontano da innocenti, salvando, insieme a loro, la propria anima e rendendo onore agli insegnamenti del padre del padre. Quel padre che si alza, ora, dalla sua poltrona, che accoglie una nipote, Jihad, vita uscita indenne dall’orrore, nuova luce che ha sconfitto il buio e che nel finale si espande sulla musica del trio Mothra.
La portata emotiva, ideologica, culturale del lavoro è evidentemente pregnante tuttavia la resa drammaturgica, nonostante la buona performance degli interpreti – leggermente enfatico Branciaroli ma la presenza scenica della giovane Marina Occhionero è davvero notevole –, pare non riuscire sempre ad affrancarsi dalla meccanicità del botta e risposta epistolare, cedendo a momenti di pura e statica declamazione.
Nonostante questo limite, però, il messaggio arriva forte e chiaro allo spettatore, tanto più significativo in quanto inviato da chi quella fede islamica la conosce e, soprattutto, la possiede: da un lato il valore, preziosissimo, della parola intesa come dialogo, come strada per la comprensione e il confronto; dall’altro, poi, la condanna di quella violenza ignobile perpetrata nel nome di un dio che nulla ha a che fare con essa, la distinzione netta e categorica tra fede e fanatismo, e la tutela della prima dalle accuse scaturite dal secondo.
Una bella lezione di relativismo, dunque, alle sempre troppo inflessibili categorie occidentaliste con le quali siamo abituati a leggere il reale e, non da ultima, una splendida immagine femminile, la trasformazione/formazione di una donna che ne mette in luce debolezze e fragilità ma anche forza, coraggio, determinazione.
Ci è parso, allora, stranamente significativo – tanto per contrasto quanto per sintonia – assistere poco dopo Lettere a Nour al lavoro del coreografo Jean-Claude Gallotta My Ladies Rock. Una celebrazione delle origini femminili del rock, di quelle pioniere – Brenda Lee, Nico, Aretha Franklin, Janis Joplin, Patti Smith – che, in un universo dominato dal maschile, si sono imposte con la musica ma anche con le proprie stesse esistenze, spesso dannate, maltrattate, allo sbaraglio; con corpi offerti e ostentati al pubblico. E con il corpo i mirabili interpreti di Gallotta raccontano gli eccessi, le fragilità, la potenza e i successi di queste artiste leggendarie che scossero gli stereotipi, aprendo la strada alla battaglia per i diritti delle donne.
«Ho conosciuto le donne del rock e le ho trovate belle… rozze, eleganti… potenti, forti… Ho creduto che la lotta delle donne non avesse più modo di esistere… I had a dream»
Con queste parole fuori campo si conclude lo spettacolo, nell’amara constatazione che quella energia ha ancora bisogno di sprigionarsi. Un’energia che, per concludere globalmente la nostra riflessione, deve essere universale, che sia capace di abbattere muri e stereotipi di qualsiasi natura essi siano, ideologici, religiosi, sessuali, sociali; che sia energia di parola e di azione, che spalanchi le porte all’Altro, liberando le nostre menti dalla rigidità di idee, per lo più imposte, e aprendole alla scoperta del nuovo e del “diverso” perché – da Razine – in fondo «il contrario della conoscenza non è l’ignoranza ma la certezza».
LETTERE A NOUR
traduzione italiana a cura di Anna Bonalume
e con il trio Mothra
Fabio Mina flauto, flauto contralto, duduk, elettronica
Marco Zanotti batteria preparata, percussioni, elettronica
Peppe Frana oud elettrico, godin multioud, elettronica
luci Vincenzo Bonaffini
musiche originali trio Mothra§
costumi Gianluca Sbicca
in collaborazione con Ravenna Festival
testo e drammaturgia Claude-Henri Buffard
scene e immagini Jeanne Dard
disegno luci Dominique Zape
video Benjamin Croizy
costumi Marion Mercier
assistenti costumisti Anne Jonathan e Jacques Schiotto
con il sostegno di MC2: Grenoble
Luglio 2018