GIORDANA MARSILIO | Il teatro è un luogo in cui il tempo reale si ferma e ne scorre uno a parte, in cui lo spettatore accetta di farsi coinvolgere in un mondo fatto sì di finzione, che tuttavia non si discosta dalla realtà circostante, un luogo in cui i confini, tra ciò che si appare e ciò che si è, sono molto sottili. La linea invisibile che divide il palco dalla vita quotidiana era già stata evidenziata da Shakespeare che così scriveva “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.“ Il fitto rapporto tra teatro e realtà, tra la maschera che indossa un attore in scena e quella che si indossa nella vita, come sosteneva il drammaturgo inglese, è il cuore dell’opera di Ingmar Bergman in Dopo la prova. Daniele Salvo porta in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto l’opera televisiva (1984) del regista svedese con due celebri interpreti: Ugo Pagliai e Manuela Kustermann e con loro anche la giovane attrice Arianna Di Stefano.
Henrik Vogler (interpretato da Ugo Pagliai) è un regista che ama restare da solo a teatro dopo le prove. Al momento sta mettendo in scena Il sogno di Strindberg e mentre è seduto ad un tavolo entra la giovane attrice Anna (Arianna Di Stefano), protagonista del suo spettacolo nel ruolo di Agnes. La ragazza, con un pretesto, è tornata a teatro per cercare un braccialetto. I due cominciano un dialogo che si muove tra i ricordi del passato, le sensazioni presenti e il teatro. Anna, però, non è solo l’attrice del suo spettacolo, ma è anche la figlia di Rakel, un’attrice ormai morta da cinque anni di alcolismo, amore passato di Henrik, la quale gli riapparirà per un momento, proprio come in un sogno, ricordando una delle tante discussioni e scambi avuti con lei.
La storia scritta da Bergman pone l’attenzione sul teatro come luogo del sogno, come un luogo in cui il confine del reale si scioglie letteralmente con quello dell’irreale, non potendo più distinguere le due dimensioni. Il teatro come microcosmo lontano dal mondo, posto tra fantasia e realtà, è un tema molto caro al regista svedese che analizzava questo topos anche in Fanny e Alexander (1982), ultima opera di Bergman – con forti elementi autobiografici – il quale ritornò dietro la macchina da presa proprio per Dopo la prova.
Proprio l’intersecarsi di due dimensioni distinte e contrarie viene ben reso dalla messa in scena di Daniele Salvo e dalla scenografia (Alessandro Chiti), poiché presenta un’ambientazione dai colori scuri nella quale aleggia del fumo, che rende ciò che avviene in scena qualcosa di etereo e di irreale. Infatti un filtro trasparente divide lo spettatore dal palco, al fondo del quale si trova una tenda nera trasparente. Con alcuni giochi di luce viene mostrato quello che si cela dietro il telo nero: il regno dei morti, rappresentato da manichini di cui vengono proiettate le ombre. Tra questi risiede anche Rakel (Manuela Kustermann) che abbandona quel regno per ritornare, almeno per un momento, nei ricordi di Henrik. Tramite la scenografia viene reso esteticamente uno dei temi cardini di questa opera, ovvero la fusione di immaginario e realtà, del mondo onirico (non esistente) e quello dei ricordi passati. Il teatro diventa così un’eterotopia, come la definiva Michel Foucault, un luogo-non luogo in cui opposti e contrari si ritrovano a coesistere.
Le luci (Umile Vainieri) vengono sapientemente usate per sottolineare momenti più intensi o momenti “parentesi” come quando Anna recita la parte di Agnes. Le luci, tendenzialmente scure, passano dal blu al viola, per poi illuminare coscientemente di giallo alcuni punti della scena sui quali porre l’attenzione, come ad esempio, quando Rakel ripete insistentemente che il suo volto sta invecchiando, delle teste, forse di cera, vengono illuminate, a voler sottolineare come loro non siano, invece, sottoposte ai cambiamenti del tempo. Perché in teatro si può fingere, come ripete Rakel a Henrik, si può far finta di essere chi non si è. Quelle teste, quindi, rappresentano l’eternità del teatro, come una galassia dell’universo in cui il tempo si ferma, o meglio il passare del tempo non esiste, concetto espresso didascalicamente da un orologio appeso in alto a sinistra senza lancette. Il suono di un pianoforte (musiche originali di Marco Podda) corona alcune scene, intensificando la drammaticità del momento.
Inoltre i costumi (Daniele Gelsi) degli interpreti, rappresentano l’aspetto interiore che si cela nei personaggi. Henrik, ad esempio, indossa abiti neri semplici, che restituiscono il rigore, in qualche modo, del suo essere, rispetto ad un animo irrequieto e fragile come quello di Rakel, che indossa un abito grigio ed è scalza, la quale si muove utilizzando tutto il palco, persino il pavimento, esprimendo così, da una parte, la sua appartenenza al teatro a tal punto da ricoprirne ogni centimetro, ogni angolo del palco è suo, e dall’altra l’inquietudine del suo essere. Come lei, ma con delle scarpe, è vestita la figlia Anna, la quale, come ripete sempre Henrik, ricorda molto la madre. Infine, cosi vestita è anche la bambola posta su di una sedia, molto simile ad Anna, la quale prenderà proprio il suo posto sulla sedia quando Henrik e Rakel parlano, come se si fosse tornati indietro nel tempo, infatti Rakel dirà “Anna ora ha 12 anni”.
Nei diversi dialoghi emerge sempre il conflitto tra il ruolo che si ricopre a teatro e quello che si ricopre nella vita, sia ad Anna che a Rakel, viene rimproverato di recitare nella vita privata così come sul palco. Per questo motivo è ricorrente il tema della maschera, del celarsi, proprio come sosteneva Nietzsche che, in Al di là del bene e del male, analizzava come la maschera non serva solamente per mentire, ma che null’altro è se non un mezzo per nascondere il nostro Io più profondo, per proteggere gli altri dalla realtà che abbiamo dentro.
Un testo complesso quello di Bergman che viene qui ben rappresentato, molto fedele all’originale, riuscendo ad inserire alcuni momenti ed informazioni, che nel film vengono mostrati come flashback, senza far perdere allo spettatore del teatro nessun aspetto. Ugo Pagliai e Manuela Kustermann rendono con straordinaria naturalezza e allo stesso tempo lucidità due personaggi fragili in modo differente, nostalgici e melanconici, non facendo mai dubitare neanche per un momento che la finzione alla quale stiamo assistendo sul palco sia reale.
Un’interpretazione intensa e ben modulata quella di Arianna Di Stefano che si deve confrontare con due grandi attori. Infatti la giovane attrice non sfigura accanto a Pagliai e alla Kustermann, tuttavia, emerge, rispetto ai suoi colleghi, la sua acerbità. Il testo scorre fluido, fin da subito il ritmo incalza prima nel dialogo tra Henrik e Anna, per poi raggiungere la punta più alta nell’incontro/scontro tra Henrik e Rakel. La parte che risulta meno scorrevole e perde di fluidità e l’ultima, in cui c’è il dialogo finale tra Henrik e Anna. Il ritmo di questa parte non riesce a reggere il confronto con il tempo precedente, risultando più monotono, forse, però, effetto voluto, poiché, se prima Henrik e Anna parlavano da due gradini differenti, qui è come se i personaggi si incontrassero sullo stesso livello e probabilmente anche per questo il ritmo si fa più placato.
Dopo la prova è la storia del teatro, del mondo della finzione unito alla realtà, ma è anche una riflessione sulla vita e il tempo. Infatti il palco è ricoperto di foglie che arrivano fino alla prima fila in platea. Le foglie e il temporale iniziale rappresentano l’autunno della vita, l’avviarsi dell’invecchiamento dell’albero, come dice anche lo stesso Henrik facendo riferimento ai dolori corporei che “lo stanno rosicchiando”. Ma a teatro il tempo non passa, eppure bisogna confrontarsi con il mondo lì fuori e il ciclo della vita. Il dialogo tra Henrik e Anna è, infatti, anche un confronto tra vecchiaia e giovinezza. Alla fine Henrik ammette il suo amore nei confronti della giovane, ma è come se amasse quello che Anna rappresenta, ovvero la madre e l’amore passato che egli provava per Rakel. Le foglie cadono, e nonostante l’arte possa rendere immortali, il tempo reale scorre, ma Henrik preferisce restare nel suo teatro dopo le prove perché “la realtà la trovo una commedia noiosa”.
Dopo la prova
di Ingmar Bergman
con Ugo Pagliai, Manuela Kustermann
e con Arianna Di Stefano
scene Alessandro Chiti
costumi Daniele Gelsi
musiche originali Marco Podda
disegno luci Umile Vainieri
regia Daniele Salvo
produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello (Roma), Milleluci Entertainment
Visto il 14 luglio al Festival dei Due Mondi di Spoleto