ROBERTA RESMINI | Una luce bianca abbagliante, poi il lento apparire del profilo delle montagne. Un susseguirsi di riprese di interni e di esterni, lo spazio aperto della valle e lo spazio chiuso della casa riscaldata da una stufa a legna, una donna anziana, un bambino, delle mani che portano i segni del lavoro della terra. E ancora, il fuoco, la pietra, l’aria, l’acqua che si alternano in una danza ritmica. Tutto questo è Avalanche, lo spettacolo dell’artista spagnolo Carlos Casas che ha chiuso il festival Voices&Borders di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli domenica 15 luglio.
Avalanche è un documentario che accompagna lo spettatore a 4000 metri d’altezza, nel villaggio di Hichigh, sulla catena del Pamir, al confine tra Afghanistan e Tagikistan. Una regione di sublime bellezza, dove l’uomo si mette a nudo nel rapporto con la natura, con la quale intesse una relazione molto intensa. Lo spettatore ha modo di immergersi nella vita del villaggio, tra le case costruite con fango e pietra su un altopiano circondato da montagne maestose, tra pastori, greggi e bambini che giocano nella natura. Le immagini riproducono scene di vita quotidiana: un fabbro che batte il ferro, un agricoltore che macina i cereali, una donna che lavora la lana; la luce e l’oscurità si alternano in una composizione di immagini equilibrate e suggestive. La proiezione è accompagnata da una performance dal vivo dello stesso Casas e di Giuseppe Ielasi, che, giocando con i mixer, riproducono dal vivo la colonna sonora del film. Partono da musiche registrate dall’artista in occasione dei suoi viaggi a Hichigh a cui aggiungono nuove sonorità, come il rumore del vento, della pioggia, o il battere del martello sul metallo.
Quest’ultima opera del regista e visual artist Carlos Casas è portata avanti nel solco delle composizioni precedenti. I suoi lavori sono frutto di un modus operandi che fin dai precedenti titoli ha rappresentato lo stile del racconto, caratterizzato da un’indagine paziente e approfondita degli spazi e delle persone che incontra. I documentari Hunters since the beginning of time, che segue le giornate dei cacciatori di balene in Siberia, Aral. Fishing in an invisible sea, che ripercorre la vita dei pescatori del lago Aral così come Solitude at the end of the world, che si focalizza sull’isolamento vissuto dagli uomini che vivono nei territori più estremi della Patagonia hanno ottenuto riconoscimenti ai festival internazionali di Torino, Madrid, Buenos Aires e Città del Messico.
Eppure, con Avalanche, Casas ha voluto rompere con la tradizionale forma di documentario per sperimentare un nuovo tipo di lavoro. Iniziata nel 2005 con la sua prima missione nella regione del Badakhshan (la regione di cui fa parte il villaggio di Hichigh), non è concepita come un’opera finita. “Il mio primo viaggio a Hichigh era dedicato all’esplorazione della musica della regione, ma poi ho iniziato a conoscere la gente del villaggio. Volevo raccontare qualcosa sugli abitanti, volevo tramandare l’anima di questo posto così isolato che rischia di andare perduta per sempre. Non potevo non ritornare in un luogo così magico”, riferisce l’artista in occasione della masterclass del pomeriggio. Da qui l’idea di strutturare il lavoro come un continuo work in progress, dove il ritornare sui luoghi a distanza di anni ha l’intento di documentare i cambiamenti della vita in questo villaggio di frontiera, ma anche i cambiamenti avvenuti nell’autore, un progetto life-long, iniziato quando il regista aveva 29 anni e che lo accompagnerà per gran parte della sua vita.
Decisamente nobile l’intento, superbo il sentimento che trasmette quando racconta, nella masterclass pomeridiana, il suo lavoro di ricerca, con una passione e un trasporto tali da far sentire lo spettatore stesso un visitatore atteso e benvoluto del villaggio. L’artista ha un’abilità maieutica e dell’insegnare notevole. Meno coinvolgente, invece, il prodotto finale che viene presentato in serata, che non riesce a trasmettere la ricchezza dell’incontro. Si percepisce uno sbilanciamento tra postulato teorico, dal forte impatto emotivo, e messa in pratica dell’intenzione artistica, in questo frangente.
Mentre nel laboratorio pomeridiano lo spettatore vede scene in cui i personaggi dialogano, oppure fotografie di persone che l’artista nomina una per una, nel documentario i personaggi appaiono anonimi, spersonalizzati. La musica, così centrale nella vita del villaggio, viene riprodotta solo in parte: la performance di Casas e Ielasi riesce pienamente nel tentativo di ricreare la cadenza delle sonorità e la ripetizione, ma non ne fa emergere alcuna vocalità. La musica dei liuti e dei doira, tamburelli tipici della regione, che sono gli strumenti prediletti dei musicisti locali, passa in secondo piano rispetto ai suoni artificiali riprodotti dal mixer, così come la voce del canto.
Le aspettative create nel laboratorio vengono in parte disattese, come se, alla fine, l’artista non abbia mantenuto totalmente fede alla promessa di creare un documentario vivo e unico.
Ma, in fondo, la bellezza del festival Voices&Borders di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, è stata data anche dalla capacità di trasportare gli spettatori da un capo all’altro del mondo, per far loro scoprire luoghi inesplorati, oppure dar loro gli strumenti per guardare la realtà che li circonda con occhi nuovi e per lasciare interrogativi aperti da rielaborare nel tempo.
Per approfondire i lavori di Carlos Casas: http://www.carloscasas.net/index.php
Per chi voglia ascoltare la musica del Badakhshan:
https://www.youtube.com/watch?v=gyhHOX3i70s
AVALANCHE
Live soundtrack and film
By Carlos Casas
Special guest Giuseppe Ielasi
Featuring Music by Phill Niblock
Traditional compositions and songs
Djomboz Khamdaev