RENZO FRANCABANDERA | Il tema dell’ascolto intergenerazionale è sempre stato cruciale specie nei momenti di grande cambiamento socioculturale. Ciclicamente ogni venti-trent’anni si creano cesure ampie, salti economico-sociali che modificano i contesti di riferimento, i sistemi di conoscenza. Questo, dalla rivoluzione industriale in avanti, è successo con maggior vigore, perché si è passati da forme di economia agricolo-pastorale consolidata in millenni a forme di produzione al centro delle quali l’innovazione tecnologica crea divisioni di conoscenza e di accesso alla ricchezza.
Tutto ciò è oggi ancor più visibile con la rivoluzione digitale, una cesura che, se per un verso facilita la soluzione di molti problemi della vita pratica, per altro verso, secondo molti studi, sta creando distorsioni mai sperimentate nel sistema della comunicazione umana, un vero e proprio muro nelle relazioni.
Si tratta di una diffidenza intergenerazionale che porta indietro a cinquant’anni fa, al ’68, a quel potenziale esplosivo e di recrudescenze, allora armate sotto il velo delle ideologie novecentesche ora superate, e non ancora sostituite da sistemi organici di valore. Ecco quindi che il cortocircuito è ancora più grande. I maggiorenni di oggi sono nati dopo il crollo del muro di Belino, i computer Commodore, i mangiacassette estraibili da auto, e Camel by camel di Sandy Marton.
Questo articolo parte da un’esperienza diretta e personale.
È capitato qualche tempo fa di ricevere un invito a moderare un dibattito a San Gimignano (Siena) da Orizzonti Verticali – Arti sceniche in cantiere, Festival giunto alla sua sesta edizione, sotto la direzione di Tuccio Guicciardini e Patrizia De Bari e che si tiene ad inizio luglio. Orizzonti Verticali è un progetto, nato nel 2013 a San Gimignano, curato dalla Compagnia Giardino Chiuso e dalla Fondazione Fabbrica Europa, con il contributo di Regione Toscana, Comune di San Gimignano e il sostegno della Cassa di Risparmio di Firenze.
È un festival che nel suo evolvere non mi ha mai lasciato indifferente, portandomi a riflessioni sempre vivaci, conflittuali col mio tempo e le sue contraddizioni, proprio perchè propone una settimana circa di teatro, danza, performance e incontri, all’insegna dell’interdisciplinarietà delle arti ma anche e soprattutto con un tema sempre vivo e presente, relativo al confronto generazionale e al connubio tra i vari linguaggi scenici.
In questi sei anni il festival ha mantenuto fede al suo intento, in ossimoro con le pacate secolari pietre che gli fanno da cornice, di ragionare sulle fenditure socio-culturali dovute all’incontro-scontro fra generazioni. Ricordo la mia prima partecipazione, di cui riportai qui su PAC nel 2013 in un resoconto infuocato, in cui toccai per mano proprio il tema della difficoltà di essere un allora “giovane critico” in un contesto in cui il dibattito a cui presi parte, forse anche per via del moderatore di quella sessione di confronto, si sviluppò su dinamiche molto gerarchizzate ed escludenti, in cui davvero sentii il tema dell’incapacità delle generazioni di confrontarsi fra di loro, di cercare un fattore comune fra energia tumultuosa dei giovani e pacata esperienza delle figure mature.
E dunque sono arrivato all’ombra delle torri del borgo senese proprio con l’idea di dare vita ad una sessione di confronto aperta, dove ai pochi o molti giovani eventualmente presenti, fosse dato modo di sentirsi inclusi, di partecipare.
Ne riporto qui, perchè a volte l’arte rende possibile alcuni fattori magici, e il pomeriggio dentro una delle antiche corti dei palazzi del borgo si è trasformato quel sabato di Luglio in uno scambio potente fra i partecipanti alla sessione di dibattito. Spesso troppo centrati sul bisogno di raccontare ciascuno la propria epopea di vita, i relatori esperti, negli incontri, mettono al centro la propria verità assoluta, maturata certamente con il tempo e l’esperienza, ma questo non di rado diventa ragione di egoistica sordità, di interventi lunghissimi ed egocentrati.
Ho così provato subito ad inizio dibattito a disinnescare la batteria di missili della fazione più matura, chiedendo a tutti di non parlare di quello che l’arte li aveva portati a fare, ma di quando a ciascuno di essi dell’arte non importava nulla, e di ritornare con la memoria al momento in cui si è innescata per ciascuno la miccia. E soprattutto a ricordare il motivo di quella scintilla.
Mi pareva infatti che questo quesito sul vissuto di ciascuno portasse una sorta di livella esperienziale, riportasse “vecchi e giovani” tutti sulla stessa linea di partenza.
La cosa più intrigante fra quelle venute fuori in tre ore appassionatissime di dibattito, che abbiamo dovuto chiudere per forza ma non per la volontà di chi vi partecipava, che anzi avrebbe voluto proseguire, è stata una sorta di conferma empirica dei postulati dell’Apprendimento Socio Emotivo, quell’insieme di teorie sull’apprendimento conosciuto come SEL (Social Emotional Learning), e anche sull’individuazione della fascia di età dell’infanzia/adolescenza come momento cruciale di passaggio nella creazione della personalità soggettiva, cosa confermata peraltro da moltissimi studi come questo, disponibile in ampio estratto su Google Books, di Jonathan Cohen, che comprende peraltro una serie di suggerimenti per insegnanti e curatori di progetti educativi finalizzati ad includere all’interno di contenuti didattici, l’avvicinamento alla conoscenza dei sistemi valoriali della lealtà, del rispetto per gli altri, della cooperazione, della capacità di risolvere i conflitti (o di viverli senza porre in atto comportamenti aggressivi e/o manifestazioni di rabbia), la capacità di riconoscere/valutare gli stati emotivi loro e altrui, per gestire meglio il proprio comportamento e le relazioni interpersonali.
Parliamo di competenze socio-emotive all’interno di questa narrazione perchè nel confronto e nel passaggio di testimonianze raccolte nel dibattito su quale fosse stato l’innesco per la sensibilità verso la creazione artistica, nella maggior parte dei casi questo era dovuto all’educazione familiare o a particolari momenti della formazione di base, che li avevano portati all’incontro con pedagoghi in grado di sviluppare non solo la tecnica, quindi l’apprendimento efficace, ma anche uno sviluppo globale della persona.
E proprio come esposto nella nota teoria di Gardner sulle intelligenze multiple ciascuno ha potuto riconoscere e ricondurre lo sviluppo della propria dimensione creativa agli aspetti interpersonali e intrapersonali che sono più legati alla dimensione sociale e affettiva della vita di ogni essere umano. L’istinto all’arte quindi è più facile forse che emerga in contesti in cui viene sollecitato, sembra dirci questa verifica empirica, che riporta alle teorie di Salovey e Mayer (1990) sull’Intelligenza Emotiva e poi di Daniel Goleman (1995).
Lasciando a ciascun lettore gli approfondimenti e i rimandi, che cerchiamo anche di facilitare con la piccola bibliografia in calce, torniamo al Festival proprio chiudere questo excursus, in cui non poteva mancare la discussione sulle divisioni introdotte dalla digitalità per la possibilità di una “riqualificazione del pensiero artistico”, tema che integra e arricchisce il filo conduttore del progetto incentrato sul “confronto generazionale” declinato a livello artistico.
La generale sfiducia dei senior verso il mondo dei giovani era quasi testimoniata da una partizione dei presenti, con gli over 30 seduti in cerchio a discutere e gli adolescenti all’esterno di questa geografia di discussione, quasi in parte autoesclusi. E’ stato proprio quando è stata data loro la parola, dopo una serie di interventi che avevano a tema “loro”, “i giovani”, ecc. senza che tuttavia fosse attivata la funzione di dialogo, che il dibattito è decollato e si è acceso, fra testimonianze, incomprensioni, comprensioni e avvicinamenti. Commovente il finale, casualmente ma non troppo affidato a Mimmo Cuticchio, erede di una tradizione di famiglia secolare, al quale quasi provocatoriamente ho chiesto se lui, in parte anche costretto dalle vicende familiari ad essere parte di questo universo di creatività e lavoro, avesse mai desiderato fuggirne. Gli ultimi 20 minuti dell’incontro sono stati un tuffo di Cuticchio nella memoria del dopoguerra, quando la sua compagnia di famiglia, in gravissime difficoltà economiche, girava i paesini della Sicilia in cerca di quello che serviva per vivere, affidandosi all’arte del racconto della tradizione dei pupi. Solo con gli anni quel progetto riuscì a stabilizzarsi e ad entrare perfino nei giri turistici che arrivavano nella città di Palermo, cosa che portò qualche minimo agio alla famiglia, inducendo però il giovane artista a chiedersi se la ripetizione stanca e meno appassionata di pochi frammenti di una tradizione enorme, forte di oltre 700 pupi realizzati in modo artigianale, mantenesse fede al principio della ricerca nell’arte.
Ed ecco allora la risposta di Cuticchio alla mia domanda: “Da quel ripetersi più stanco del fare arte cercai di fuggire, sì. E diverse volte andai da mio padre, chiedendogli di cambiare. Ma lui mi disse che ormai era anziano e che ora che il teatro finalmente lo ripagava un minimo delle fatiche di una vita, non si sentiva più di mettere in discussione questa piccola certezza guadagnata dopo decenni. Allora gli dissi che avrei voluto iniziare a farlo io. E lui mi disse: “Se vuoi fare il tuo teatro vai, e comincia tu. Da zero.”
– Ma non mi dai nemmeno qualche pupo per iniziare?
– No, vai e fai il teatro che vuoi fare tu.
E lui andò e prese lezioni da alcuni dei grandi maestri della tradizione dei pupi e del cunto siciliano, una tradizione di oralità e serialità di cui Cuticchio è ultimo grandissimo erede che sta anche morendo, soppiantata dalla serialità televisiva.
Mimmo Cuticchio cominciò a fabbricarsi i suoi pupi, chiedendo i capelli, come da tradizione, a chi poteva donarli, per realizzarli, iniziando (e ovviamente in parte anche proseguendo) la saga familiare che ancora oggi dura e di cui il Festival ha reso formidabile testimonianza con un evento straordinario e forse irripetibile.
Cuticchio ha infatti proposto al pubblico del Festival, proprio dopo questo dibattito così vivo e sentito sui temi dell’arte come manifestazione di volontà ma anche come eredità della propria formazione familiare, due cunti, uno della epopea dei paladini di Francia ed uno tratto da uno spettacolo ispirato all’Odissea, che fu ospitato dal padre di Duccio Guicciardini, il grande Roberto Guicciardini, scomparso come si ricorderà nel settembre dell’anno passato, e che diresse il Biondo di Palermo dal 92 al 98. Guicciardini volle nella programmazione del Biondo, per la prima volta dopo tantissimi anni di attività, Mimmo Cuticchio. E ora Cuticchio rendeva memoria a quell’atto di fiducia intergenerazionale, riportando al figlio Duccio un pezzo di quello spettacolo.
Il silenzio sulla rocca, il cunto di Cuticchio, l’arte nella sua crudele e vitale forza rigeneratrice. Legami fra generazioni, storie di famiglia, anche dure, di negazioni e ripartenze, di dialoghi avuti o mancati. E la memoria.
Per me, e non solo per me sono certo di poter dire, una giornata indimenticabile.
BIBLIOGRAFIA
Jonathan Cohen J. (1999) Educating Minds and Hearts: Social Emotional Learning and the Passage Into Adolescence, Teachers College Press, New York
Damasio A. (2003) Alla ricerca di Epinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Adelphi Milano.
Goleman D. e altri (2004) Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione. Mondatori Milano
Zins J.e altri (2004) Building academic success on social and emotional learning Teachears College Press New York
ORIZZONTI VERTICALI
Informazioni – Compagnia Giardino Chiuso Piazza S. Agostino 4, San Gimignano Tel. 0577 941182 – info@orizzontiverticali.net – www.orizzontiverticali.net – twitter: @orizzontiverticali / facebook: Orizzonti Verticali – Arti sceniche in cantiere. Pro Loco San Gimignano Piazza Duomo, San Gimignano (SI) Tel. 0577 940008 – info@sangimignano.com – www.sangimignano.com.
Dalle ore 17.00 Palazzo della Propositura, Piazza Pecori
Mimmo Cuticchio
A SINGOLAR TENZONE
Cunto di e con Mimmo Cuticchio