GILDA TENTORIO | Sabato 1 settembre non perdete l’appuntamento del Festival Ultima Luna d’Estate a Bulciago (area museo etnografico), Farsi silenzio è un’esperienza particolarissima di teatro partecipato (vedi anche il reportage di Matteo Brighenti): muniti di cuffie, gli spettatori saranno guidati in un viaggio alla ricerca del sacro. Abbiamo intervistato Marco Cacciola (attore e ideatore del progetto) e Tindaro Granata, che ne ha curato la drammaturgia.
È strano nella società contemporanea farsi domande sul sacro. Come è nata questa tua ricerca?
Marco Cacciola: Un paio di anni fa avevo bisogno di staccare dai luoghi del teatro, andare fuori, ritrovare una scossa, così necessaria nel nostro lavoro. Sono partito dall’etimologia delle parole, per andare alla ricerca della sacralità del mistero del teatro. Mi sono quindi reso straniero e “pellegrino”, che deriva da per agros, colui che vaga per i campi. Ho voluto diventare pellegrino laico e artistico, alla ricerca soprattutto dei suoni. Per fortuna quelli di Elsinor Centro di Produzione Teatrale mi hanno dato fiducia. Ho camminato per 38 giorni, prima da Milano a Piacenza e poi per i borghi appenninici della Cisa, della Lunigiana e giù fino a Roma. Andavo alla ricerca di suoni. Giravo con registratore e due microfoni, registravo il paesaggio di suoni e mi ponevo in ascolto. Poi gli incontri casuali con una variegata umanità, di cui ho cominciato ad ascoltare i racconti. Le componenti di questo mio lavoro sono due: il cammino, la “viandanza”, che significa anche riprendersi il tempo, vivere con lentezza. E poi il valore del silenzio. Il significato dell’ascolto è venuto strada facendo. La mia ricerca era sul Sacro, parola che deriva dal latino sacer e indica la separatezza, l’andare fuori di noi. È questo “sacro” che dà il senso alla vita, al misterico e tutto questo è legato al teatro delle origini ed è anche il senso stesso dell’esistere, insomma il bisogno di ritrovarsi.
Come ha funzionato la vostra collaborazione?
Marco Cacciola: Ho raccolto tantissimo materiale ma mi sono reso conto che non era possibile raccontare tutto, perché era troppo intimo. Tindaro mi ha aiutato a creare quella piccola distanza che fa il teatro. Siamo molto diversi, ma è stato un incontro e una collaborazione molto forte. Inoltre Marco Mantovani, uno straordinario esperto del suono, è stato fin dall’inizio assolutamente complice. Io ho dato loro delle suggestioni, i miei appunti presi in viaggio e le registrazioni di soli sei giorni, altrimenti diventava un’epopea. Tindaro ha preso alcune cose, altre le ha trasformate. Lavoravamo a sei mani e magicamente tutto si incastrava. Ecco, la magia del “quando accade”, quando Dioniso appare. Questa è stata la sensazione.
Tindaro Granata: Farsi silenzio nasce dal desiderio di Marco di chiedersi e di chiedere alla gente che cos’è Il sacro oggi. Nel suo “pellegrinaggio laico” ha incontrato persone che vivono quotidianamente in luoghi che ad esempio sulla Francigena erano strade di passaggio alla ricerca del sacro. Dalle risposte registrate di queste persone ho ricavato un testo che unisce la loro esperienza, la voglia di capire cos’è il sacro in questo momento storico e nella mia fantasia. Insomma, ho costruito una drammaturgia a partire dalle sensazioni scaturite nell’ascoltare le storie. Marco Mantovani ha tracciato un disegno sonoro che accompagna volta per volta lo spettatore e le storie.
Come definiresti questo lavoro?
Tindaro Granata: Lo spettacolo non ha una forma compiuta sia drammaturgicamente sia per tutto l’impianto artistico, perché vuole evolversi e modificarsi insieme agli spettatori e ai luoghi in cui viene rappresentato, con la loro storia. È una scelta consapevole e non di maniera quella di non aver voluto costruire un progetto pronto e del tutto “finito”: a mano a mano che lo spettacolo prendeva forma, ci siamo resi conto che doveva avere più anime possibili per essere contenuto e raccontato da una sola persona, che sia essa l’attore, il drammaturgo o l’artista sonoro. Quello che ho amato di questo progetto, a parte l’entusiasmo di Marco, è il fatto che possiamo spiegare, facendo Teatro, che possiamo prenderci del tempo: è sempre sottinteso che il teatro sia quel luogo del tempo che serve ad arricchire la nostra vitalità, non ad alimentare la solitudine, cosa che invece accade con i social, come è risaputo.
Marco Cacciola: Sì, lo spettacolo è una sfida. È un’opera non finita, che continua a cambiare. Quello che cerchiamo di fare adesso io e Marco Mantovani (anche se a distanza, siamo sempre in contatto e in condivisione con Tindaro) è di variare a seconda dei posti che attraversiamo. La struttura portante esiste, ma giochiamo, o meglio “suoniamo insieme” come mi piace ripetere, aggiungendo nuove registrazioni, frasi, suggestioni.
Tu Marco sei l’attore in scena: quale rapporto cerchi con il pubblico?
Marco Cacciola: Coinvolgimento e dialogo. Io nasco come attore. Sento di avere un impegno: essere lì, presente. Penso che oggi il teatro abbia soprattutto bisogno di questo, di presenza, cioè di togliere le sovrastrutture. E quindi diventa necessario un rapporto diretto e dialogico con lo spettatore, cercando di tornare a quell’evento che era il teatro nella Grecia antica. Farsi silenzio va in questa direzione: è uno spettacolo rivolto a poche decine di persone, in cerchio, come succedeva intorno agli aedi antichi, e gli spettatori partecipano a questo rito collettivo. Ma il regalo più bello è ciò che la gente viene a dirci dopo lo spettacolo o ricevere le loro email. Sono soddisfatti, soprattutto perché abbiamo aperto loro una possibilità. Il teatro deve essere un detonatore di pensiero, senza effetti speciali. Farsi silenzio infatti, forse il lavoro più “semplice” della mia vita, dà la possibilità dell’incontro.
Qual è dunque il tuo ruolo: sei un direttore d’orchestra di voci o piuttosto un Virgilio che guida lo spettatore?
Marco Cacciola: Sono un compagno di viaggio. D’altra parte l’incontro con un essere strano, straniero – e se vuoi Virgilio è così – rende più facile l’intimità della confessione, come è successo a me durante mio viaggio. Verso lo spettatore mi pongo come un compagno di viaggio, suggerito anche attraverso il meccanismo del fallimento. E questa è stata un’intuizione magistrale di Tindaro. Non solo perché il fallimento è più interessante in un’epoca come la nostra dove il successo conta più di tutto, ma anche perché il fallimento unisce le persone, ci rende umani. Come mi ha detto un fisico che ho incontrato durante il cammino: errare, nelle sue due accezioni, è fondamentale. Io quindi sono un compagno di viaggio e vi invito a fare un pezzo di strada insieme.
Che cosa significano silenzio e ascolto per un artista di teatro?
Marco Cacciola: Nel mestiere dell’attore è importantissimo allenarsi all’ascolto, ad esempio quando interagisci con gli altri nello spazio, è importante sapere dove sono, cosa dicono. L’ascolto permette di ascoltare noi stessi e di aprirsi agli altri. Io con lo spettacolo voglio cambiare la percezione dell’ascolto. Come si dice “spostare il punto di vista”, così io vorrei spostare il punto di ascolto. Il silenzio è il luogo fisico dove si incontra l’altro. Per dialogare davvero, bisogna predisporsi al silenzio, in modo da inserire l’altro nel mio discorso per “comprenderlo” cioè metterlo dentro il mio discorso. Sto zitto ad ascoltare. Il dialogo è più un’alternanza di silenzi che di parole. Oggi non c’è spazio per l’ascolto. Chi governa lo fa a suon di tweet e dichiarazioni sempre meno ufficiali, come se il comunicatore fosse più importante di chi fa le cose in silenzio. In questa società dello spettacolo è più importante raccontare che fare. Penso che bisogna conquistarsi il diritto di essere ascoltati, a teatro come in politica.
Tindaro Granata: Quando si è giovani si ha la voglia di fare e dire tanto, passa il tempo e si ha bisogno di dire poco e fare meno. Tra pochi giorni compirò 40 anni, nonostante sia artisticamente giovane perché scrivo solo da 7 anni, nei miei anni ho vissuto tantissime esperienze, alcune brutte altre belle, e adesso vorrei che il mio teatro fosse fatto di silenzi e che le parole acquisissero il senso più profondo attraverso i silenzi. Anche ascoltare è un esercizio che bisognerebbe imparare a fare e bisognerebbe che tutti imparassimo a farlo. Ci sono dei momenti della mia vita in cui sono molto bravo ad ascoltare me stesso e mi piace; poi fortunatamente, arriva qualche cosa da fuori, una grande solitudine, una grande tristezza, un grande sconforto, che mi fa desiderare di ascoltare gli altri, ed è questo che finora mi ha sempre salvato, anche da me stesso. Sia l’artista che l’uomo parlano un po’ a loro stessi un po’ agli altri, entrambi hanno la necessità di essere, per loro stessi e un po’ per gli altri: soltanto l’alchimia perfetta tra queste due esigenze riesce a rendere completi un uomo e un artista. Non sempre ci si riesce, non sempre si ha la fortuna di trovare la giusta proporzione delle cose. Sbagliamo in continuazione, fortunatamente, per poter arrivare a un briciolo di giustezza, ad una immagine di equilibrio seppur imperfetta e, sbagliando, prima o poi impariamo a rendere gli altri felici.
La forza del teatro è ancora “politica”? quali speranze possiamo avere nel mezzo teatrale?
Marco Cacciola: Questa nostra società ha bisogno di rifarsi polis. In un mio progetto futuro voglio riflettere sul Coro e la polis: nell’antica Atene il teatro costruiva comunità con una forza sacra. Occorre creare una comunità che ragiona, riflette, alimenta il pensiero. Ci trinceriamo invece dietro le nostre piccolezze o pseudosicurezze e guardiamo con sospetto l’Altro. Trovare il nemico comune è pratica banale e semplicistica che esiste dal tempo delle caverne. Noi invece dobbiamo cercare la cosa più difficile, che è il fare comunità. La politica è alla base del teatro. Come dice Claudio Morganti, il teatro non deve in-trattenere, ma trattenere.
Tindaro Tindaro: Ovunque ci sia comunione tra pubblico e artisti, quello è un posto dove c’è speranza di fuggire all’indifferenza alla vita. Dobbiamo educare i giovani a far sì che questo luogo sia accessibile anche a loro e dobbiamo educarli noi, non possiamo aspettarci che sia la “società” a farlo; cos’è la “società”? La grande massa non va a teatro, che invece non deve appartenere a pochi. Nonostante ciò, dobbiamo lottare con tutti i mezzi possibili (anche attraverso i social), non per cercare di far vivere il nostro piccolo mondo teatrale ma affinché esso sia il più possibile abitato da gente che non c’è mai stata, non l’ha mai conosciuto nè incontrato, anche da chi sa dire solo mi piace e non mi piace, scatta selfie a se stesso, ai cibi che mangia e alle spiagge che visita. Bisogna dare una speranza al mondo e possiamo darla col teatro, noi teatranti, per sconfiggere l’indifferenza alla vita. Mi viene in mente Vittorini, che in Conversazione in Sicilia denunciava una terribile “…quiete della non speranza”. Il teatro può fare poco, ma questa è una “lotta” per cui vale la pena di lottare, per sentirsi ancora vivi, in questo tempo.