GILDA TENTORIO | Per fare teatro sul territorio occorrono gli spazi giusti. La vocazione del Festival Ultima Luna d’Estate si concretizza anche in una paziente ricerca esplorativa, in collaborazione con le autorità locali. Domenica 2 settembre abbiamo parlato con due degli anfitrioni del Festival, che ospitano con generosità il pubblico. La signora Roberta Lanfranconi gestisce a Sirtori l’azienda di famiglia. È affezionata alla sua Fattoria, perché vi è cresciuta da bambina, fra prati e boschi: «qui da noi tutti gli animali erano ben accetti e ne circolavano di tutti i tipi», mi dice indicandomi quelli di oggi, le caprette, un cavallo e il simpatico asinello Oreste. «Tutto comincia con la passione di mio padre, di mestiere costruttore, ma con un amore sconfinato per i cavalli, e proprio questo hobby è diventato la Fattoria Lanfranconi, cioè un allevamento di cavalli da trotto e un’azienda agricola. Il cuore pulsante era la scuderia: nell’epoca d’oro ospitava venticinque esemplari». Le chiedo che cosa significa per lei fare cultura nei “suoi” luoghi. Roberta abbraccia con lo sguardo la Fattoria: «Portare avanti tutto questo, continuare il sogno di mio padre, coltivare le nostre radici e tradizioni, questo è fare cultura. Non vedo nulla di strano nell’aprire le mie porte allo spettacolo di oggi, come pure ad altri eventi culturali: le due cose stanno benissimo insieme».

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E infatti ha ragione. Più di centoventi persone si sono raccolte nel cortile della Fattoria Lanfranconi: dopo aver contemplato le caprette, i bimbi ora siedono su un tappeto in prima fila, e i grandi su sedie di plastica. Balle di fieno fanno capolino dal piano rialzato, ogni tanto l’asinello raglia e si sentono anche i muggiti di tre belle vacche, sdraiate nella stalla. Siamo tutti qui per la favola africana Kanu, (produzione Piccoli Idilli), che ha la delicatezza incantevole di sapori lontani. Il festival dà linfa a un’operazione multiculturale che affonda le radici nel territorio, rivitalizzando tradizioni che non sono poi così distanti. Due suonatori (Daouda Diabate e Kadi Coulibaly) in vesti azzurre: suoni ritmati, canti, la sapienza secolare riecheggia nella musicalità della lingua africana.

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Ed ecco, in ariose vesti bianche, la bella Bintou Ouattara, alta, snella, elegante e leggera. Sarà lei la narratrice, in ita-liano, che però spesso scivola nel dialetto africano, rendendo il rac-conto più sponta-neo e misterioso. La sua voce si fa anche gesto, movimento, danza mimetica, per ricreare in scena un caleidoscopio di personaggi e animali: la vicenda diventa, magicamente, immagine viva davanti ai nostri occhi, e infatti i bambini riconoscono subito il passo pesante dell’ippopotamo e il corpo goffo del coccodrillo con le fauci aperte. Kanu è una storia che parla di amore, ma anche di magia e metamorfosi, con la grazia di un sorriso, l’orgoglio di una tradizione antichissima e la raffinata consonanza di ritmo e ballo. Sotto i piedi nudi degli artisti, l’aia brianzola profuma di Africa.

Il secondo spettacolo della sera è a Osnago. Da Sirtori, il navigatore propone stradine che solcano il Parco di Montevecchia, prati, campi di pannocchie. Ed ecco che a una svolta si ritrova la Provinciale, le case, le fabbriche, la ferrovia. Ad aprire le porte qui è Villa de Capitani, fra le dimore aristocratiche di questo comune. In un parco enorme, la villa presenta una pianta a U, in cui le ali40694437_1997379603617577_8999316349075324928_n laterali sono chiuse da portici e abbracciano un ampio cortile, dove si svolgerà lo spettacolo. Il proprietario ci spiega che fra i suoi avi c’è anche un de Capitani che fu oratore a Pontida, anche se quell’evento è avvolto nella leggenda, e poi deputato alla pace di Costanza del 1183, quella fra Federico Barbarossa e la Lega Lombarda, come ricorda anche la statua di un guerriero del Carroccio in una nicchia, mentre altrove si riconoscono quelle di poeti e scrittori. L’edificio di inizi Ottocento ha al suo interno un salone neoclassico e una ricca biblioteca con i volumi della Regia Accademia. «Fare cultura», dice il signor de Capitani, «è portare a rivivere un luogo come questo, che a noi piace mettere a disposizione del pubblico nelle manifestazioni estive, per concerti e spettacoli».

Il pubblico stasera è vario, incuriosito dalla proposta: Don Chisciotte. Tragicommedia dell’Arte di Stivalaccio Teatro, con il vicentino Marco Zoppello, che scrive anche i testi, e il toscano Michele Mori, che collabora al cesello e alla resa interpretativa. Si conoscono nel 2007 e con l’irruenza e l’incoscienza della gioventù fondano la Compagnia, per rinvigorire i caratteri della Commedia dell’Arte. Anni di prove e di studio anche a Parigi con il grande esperto Carlo Boso; poi, i primi successi: teatro di prosa, teatro di strada e per ragazzi.

Che c’azzecca Don Chisciotte? L’idea è venuta spulciando il dizionario biografico I comici italiani (di Luigi Rasi), da cui Zoppello sceglie due rinomati attori della Compagnia dei Gelosi (XVI secolo), tale Girolamo Salimbeni di Firenze e il padovano Giulio Pasquati, in arte rispettivamente Piombino e Pantalone, tipi interessanti che permetteranno anche un simpatico mix dialettale.

Poiché a teatro tutto è concesso, si può peccare di anacronismo e immaginare che Salimbeni e Pasquati nel febbraio 1545 a Venezia abbiano messo in scena la vicenda dell’hidalgo spagnolo (anche se l’autore del capolavoro, Cervantes, non è ancora nato…). Ma non è tutto. Qui Cervantes va a braccetto con Dante, Shakespeare, Calderon de la Barca, in una macedonia di citazioni ben calibrate e mai scontate, che si reggono su uno stratagemma semplice e sofisticato a un tempo, come la tecnica di Sherazade nelle Mille e una notte. I nostri commedianti infatti si sono ficcati in un mare di guai, perché hanno recitato in tempo di Quaresima «sconce commedie dell’arte», con sberleffi contro il doge e altre invenzioni di dubbia moralità. Convocati dall’Inquisitore, sono addirittura condannati alla forca, ma riescono a ottenere la grazia di un ultimo desiderio: recitare ancora una commedia. Sarà il pubblico a decidere della loro sorte, perché «vox populi, vox dei». Il tema prescelto è appunto Don Chisciotte. La loro tragicomica vicenda è già avvenuta, ma stasera, per ringraziarci, ci narreranno di nuovo come è andata.

40615474_1998238776864993_7728487894725165056_nIn una scena spoglia (il panno rattoppato e multicolore è tipico della Commedia dell’Arte) e con pochi attrezzi di scena, i due devono rabberciare una storia credibile, sul canovaccio del famoso romanzo spagnolo: se una pentola ammaccata sarà l’elmo di Mambrino, un manico di scopa può essere Ronzinante oppure, fatto roteare, ecco il mulino; una voce alterata o una maschera introdurrà altri personaggi: battute incastonate una dietro l’altra, lazzi, accostamenti tonali di alto e basso, trovate e giochi di parole, danno nuovo smalto e accendono la miccia per altre risate.

Grazia scintillante e comicità mai sopra le righe costruiscono il gioco metateatrale: gli attori di oggi (Mori-Zompello) recitano la parte degli attori Salimbeni e Pasquati, che senza posa entrano ed escono dal proprio ruolo (Don Chisciotte-Sancho) e cercano la complicità del pubblico. Gli spettatori si affidano al flusso di questa storia un po’ strampalata, dal ritmo travolgente, e quasi senza accorgersi si fanno essi stessi interpreti e co-autori. Il ritmo continua a variare, senza risparmio di energie, fino a scivolare nell’improvvisazione. Il pubblico, ormai conquistato, si lascia convincere a diventare un gregge di pecore e due ignari spettatori chiamati sul palco saranno un cavallo e Dulcinea. Un’altra acrobazia della parola è quando i nostri eroi ci chiedono tre ingredienti (un oggetto, una città, un personaggio famoso), per costruire una nuova storia su don Chisciotte: la sfida sembrerebbe impossibile, ma la creatività vince sempre, attraverso accostamenti surreali, talvolta in rima e irresistibili.

40635010_1998238533531684_9159034938589184000_nAnche stasera si è compiuto il miracolo e il pubblico, con i suoi applausi lunghi e sentiti, ha salvato la vita ai due commedianti. Qualcuno si asciuga le lacrime per il gran ridere. Ascolto qua e là i commenti entusiastici: «simpaticissimi, fantastici, dei camaleonti, vulcani di energia…». Viva il teatro, quando è fatto da artisti di talento che sanno ricreare la sua magia di rito collettivo!