MATTEO BRIGHENTI | Non è destino. Tragica fatalità. I morti in mare sono la diretta conseguenza della politica dell’uomo forte. Solo al comando. Per non correre il rischio di guardare dentro di noi, ci siamo convinti che fallimenti, delusioni, frustrazioni, siano colpa degli altri. Allora, i confini sono diventati tutto ciò che vediamo. Il nostro unico interesse. Chi dimostra di volerci chiudere più al sicuro è acclamato Salvatore della Patria. Sia esso Matteo Salvini o Creonte.
È fortemente politica Antigone / nacht und nebel, la nuova ricognizione dell’Antigone di Sofocle da parte di Archivio Zeta dopo il primo avvicinamento nel 2006. Non tanto per via della cravatta verde che indossa il re di Tebe, quanto perché Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni prendono posizione come non mai. Si espongono. Alla luce del sole.
Com’è, del resto, la disubbidienza di Antigone all’ordine di Creonte. Il sovrano ha stabilito, pena la morte, di lasciare insepolto il corpo di uno dei due fratelli di lei, Polinice: che diventi pure un mucchio di membra in pasto a cani e uccelli. Antigone non si rassegna a quell’editto funesto che rinnega i legami familiari e la legge divina. Non si nasconde. Anzi, vuole che tutta la città sappia che “nessuno ha il diritto di obbedire”, per citare Hannah Arendt, il cui pensiero fa da guida alla messinscena.
L’antagonismo, per Archivio Zeta, è antigonismo. È legittimo e giusto ribellarsi quando il diritto positivo, la volontà politica, la ragione di Stato, violano le leggi “non scritte, inalterabili, fisse, che non da ieri, non da oggi esistono, ma eterne”. È il diritto/dovere di resistenza, rintracciato anche tra gli Atti della nostra Costituente in una proposta avanzata dal giurista DC Giuseppe Dossetti. Per comprenderlo, è necessario attraversare con Antigone un “teatro della compassione”, come scrive Massimo Marino su Doppiozero, fra le lapidi del cimitero militare germanico della Futa. A quota 950 metri, sulla cima di un rilievo dell’Appennino Tosco-Romagnolo, dove trovano riposo o almeno ricordo 30.683 Polinici nazisti.
Qui, ogni estate da 15 anni, Guidotti/Sangiovanni presentano le loro “azioni fuori misura” (così Ismene definisce gli intenti di sua sorella Antigone). La sofferenza altrui non è a metà, la Disamistade cantata da Fabrizio De André viene ricomposta sfidando la violenza del potere e condividendo il dolore della perdita. Antigone / nacht und nebel sussurra e grida, testimonia e reclama che le spoglie di Polinice sono il lutto che portiamo e porteremo per i nostri fratelli, di sangue o meno.
Scortati da un soldato (Andrea Sangiovanni, poi insieme a Francesco Fedele), ci fermiamo ai piedi di una scalinata in pietra. La prospettiva è lo strumento drammaturgico con cui Archivio Zeta determina, di volta in volta, caratteri e atmosfere del cimitero militare, in dialogo con l’opera e la sua rilettura. Creonte (Gianluca Guidotti) ci arringa, in quanto assemblea riunita della città, da un podio lassù in cima. La visione dal basso ne slancia la figura, accentua la dominanza e, in un certo qual modo, l’ineluttabilità. I gesti sono squadrati, al pari delle pietre che conducono a lui. Il tono è perentorio: cade – letteralmente – dall’alto.
Si professa dalla parte del popolo, eppure vicina è solo la sua voce, amplificata come in un vecchio cinegiornale. Se fosse dentro un’inquadratura, sarebbe in un campo lungo. Sui cittadini e le loro azioni prevale l’ambiente creato dal comizio: lo Stato di paura e la conseguente necessità di intervenire con ogni mezzo.
Ciò che lui decide, è. Polinice, scacciato dal fratello Eteocle, ha mosso guerra alla sua città natale con la spedizione dei “sette contro Tebe”? Ora che l’uno è morto per mano dell’altro, Eteocle sarà onorato da eroe, Polinice sarà trattato da traditore.
Antigone (Enrica Sangiovanni) spezza questa catena della visione. Restando nella metafora cinematografica, lei è un primo piano sul lutto per il sangue del suo sangue e sul disprezzo per l’autorità che non ha alcun diritto “di tenerla lontana da ciò che è suo”. Con Ismene (Antonia Guidotti) si passano sul viso della biacca, una linea bianca dalla fronte al mento. Il dolore e la rivolta sono i profili di una medesima disperazione. Secondo Ismene sono nate donne e quindi devono necessariamente subire. Antigone, invece, guarda già alle file di lapidi che si perdono all’orizzonte del cimitero militare: il suo credo è condividere amore, non odio.
Seduti adesso in cerchio attorno a lei, assistiamo al rito della “comunione” della perdita di cui parlavamo prima. Un’esperienza intima e toccante, che fonda e muove la ragione stessa di Antigone / nacht und nebel e del nostro esserci. Enrica Sangiovanni porge a uno spettatore un drappo nero preso da un cumulo per terra. Poi a un altro, a un altro ancora, e ancora, finché tutti non abbiano il nostro. Sono le spoglie di Polinice: sta elaborando il suo dolore rendendoci partecipi di “pezzi” di vita, momenti da non consegnare alla memoria, ma alla presenza, allo sdegno e al coraggio di cambiare ciò che è. Quando scopre il cadavere e lo mostra al cielo, il suo pianto è un urlo trattenuto. La colpa di quello scempio non è degli dèi, è di un uomo.
L’urlo, allora, si apre alla furia quando Antigone viene tradotta al cospetto del re sulla sommità della collina, nel punto in cui la spirale del cimitero culmina in una gigantesca scheggia. Ha cosparso di terra il corpo di Polinice: deve morire. La realtà è opera di chi ha il potere, cioè di Creonte. Ma questo, grida Antigone con tutta la forza di cui è capace, accade solo perché la città vive nel terrore che si è costruita e che adesso teme di infrangere, nonostante il crimine (rappresentato dai drappi neri) sia ricaduto su di ognuno. La legittimità ultima sta nella presa di distanza dalle gente stessa, che ha scambiato la propria sicurezza con l’indiscutibilità del volere regale.
Il discorso del re riporta la questione alla politica, all’orgoglio e, nondimeno, alla pretesa superiorità dell’uomo sulla donna. Così, Creonte comanda che sia rinchiusa con un po’ di cibo in una grotta fuori città, non intendendo macchiarsi dell’uccisione di una consanguinea (è sua nipote). Un atto odioso agli dèi, tanto quanto, secondo Antigone, quello di non dare degna sepoltura a Polinice: la morale del sovrano è doppia e persegue soltanto ciò che è utile al mantenimento della sua egemonia.
Sulla soglia dell’ultimo viaggio, Enrica Sangiovanni ha sulle spalle un fazzoletto nero con impressa la sigla N.N.. Sta per il nacht und nebel usato nel sottotitolo, ovvero “notte e nebbia”, l’espressione che definiva i prigionieri politici della Germania nazista condannati a morte durante la Seconda guerra mondiale, ma ancora in attesa di esecuzione. Gli oppositori dovevano essere fermati e fatti scomparire “nella notte e nella nebbia”, sanciva testualmente Adolf Hitler il 7 dicembre 1941 nel Decreto Notte e Nebbia, un beffardo eufemismo tratto da L’oro del Reno di Richard Wagner.
Dunque, precisa Archivio Zeta nelle note di regia, Antigone assume “lo statuto di prigioniero politico che viene fatto annegare da Creonte, come N.N., nella notte e nella nebbia della storia.” La sua fine, la giustizia spezzata dall’ingiustizia, si unisce alla Shoah e ai campi di concentramento, ai migranti e al Mar Mediterraneo. L’accoglienza riservata ai “diversi” risale da dietro le sbarre con un velo bianco e rosso, bandiera di morte che garrisce al vento a futura memoria.
Scesi sul versante ovest della collina, ci addossiamo a un terrazzamento su una distesa di lapidi a perdita d’occhio. Un messaggero (Elio Guidotti) introduce dagli estremi più remoti del cimitero l’indovino Tiresia (Alfredo Puccetti), un rocker chitarra elettrica alla mano che accusa apertamente Creonte della rovina in cui ha precipitato la città. Quasi a dire che, ormai, gli unici rimasti a dire le cose come stanno sono gli artisti.
Da questo punto in avanti Antigone / nacht und nebel si allontana dall’originale sofocleo nella misura in cui scruta il presente con il passato per rivelare il futuro impaurito di un’umanità chiusa e dimentica dei più deboli. La notte wagneriana che avanza inesorabile accompagna la carica delle parole di Angela Tognolini e la restituzione dei drappi neri. Enrica Sangiovanni se li carica tutti addosso e poi vengono deposti sull’erba, tombe senza nome per vite senza cittadinanza.
Adesso Gianluca Guidotti è su un albero, ha un giubbotto di salvataggio arancione. Nemmeno Creonte ha avuto scampo. Si è ravveduto troppo tardi: la decisione di liberare Antigone l’ha trovata già impiccata. Ciò ha spinto alla morte suo figlio, Emone, promesso sposo di Antigone, e anche sua moglie, Euridice.
Archivio Zeta restituisce la totale rovina del re nel richiamo acuto e inascoltato del fischietto di SOS usato da Guidotti. Ha ferito del suo campo lungo e ora di esso perisce. Suona La Mer di Charles Trenet e Creonte fischia a intermittenza mentre scompare nel blu del cielo che assomiglia al mare. Viene trasportato via dalla sua colpa, lontano da qualsiasi salvezza possibile.
In definitiva, la cronaca, i fatti, le notizie, sono il punto di partenza per una “chiamata alle arti” del pensiero critico che non smarrisce lo specifico del teatro: l’evocazione perturbante. A differenza di quel “teatro delle condizioni differenti” visto al Festival Terreni Creativi 2018, Antigone / nacht und nebel, con la determinazione e il rigore dei due protagonisti (i ruoli secondari non sono altrettanto centrati e curati), si rivolge costantemente al pubblico per stanarlo dal pregiudizio. Ci imprime negli occhi che camminiamo su un mare di tombe. Piccoli, non per questo meno colpevoli. Forse, in questo modo, proveremo almeno un poco vergogna. È il primo passo per diventare come Antigone: riconoscere e affrontare il Creonte che è in noi.
Antigone / nacht und nebel
da Sofocle
drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
con Gianluca Guidotti, Enrica Sangiovanni, Antonia e Elio Guidotti, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Alfredo Puccetti, Andrea Sangiovanni
partitura sonora Patrizio Barontini
elementi scenografici Francesco Fedele
tecnica e invenzioni Andrea Sangiovanni
coreografie Carolina Giudice
sartoria Made in Tina
conflagrazioni poetiche Angela Tognolini
voci del Coro Alessandro Barontini, Antonia e Elio Guidotti
assistenza Giulia Piazza
organizzazione Martina Bubba
foto di scena Franco Guardascione
produzione Archivio Zeta 2018
con il contributo di Regione Toscana, Regione Emilia-Romagna, Città Metropolitana di Firenze
Cimitero militare germanico della Futa
Firenzuola, Firenze
Sabato 18 agosto 2018
Mi spiace, ma c’è un grave errore interpretativo, a mio modesto parere, poichè è Antigone è la riformista, legata a doppio filo quasi incestuoso al ghenos familiare da cui non vuole evolvere, affrancarsi; a Creonte resta l’ingrato compito di riportare l’ordine in una polis sventrara dalla guerra civile, anche con duri termini e aziopni. Ma dopo un’altra guerra familista per il potere è necessaria una fermezza della”barra”. E’ dagli annio ’60 che esiste questa visione idelista della “povera Antigone” e del crudele dittatore. Io penso che se vogliamo uscire da questo paese familista, mafioso e incestuoso dobbiamo cercare di leggerlo per un altro verso . E’ Antigone che dobbiamo spure fuori dalla budella e dall’anima. Sono contento di riparlarne, ovviamente. Matteo Brighenti
Quindi, se capisco bene, Roberto Biselli, la pensa come Hegel, che tra difesa della famiglia e mantenimento dello Stato (di diritto), insomma, tra Antigone e Creonte, sceglieva il secondo e non la prima. È una posizione più che legettima.
Se guardiamo strettamente al testo, Sofocle non prende una posizione né per l’una né per l’altro, racconta il mito, non lo interpreta. Sono state poi le letture e riletture successive, è vero, a innalzare l’immagine di Antigone e dregadare quella di Creonte. Perché, volente o nolente, è lei l’elemento di rottura e innovazione. Se non ci fosse lei, banalmente, non ci sarebbe (la) tragedia, cioè, semplifico, la sfida ai limiti, propri e dell’ambiente, dell’essere umano. L’ordine non fa progresso né, tantomeno, narrazione.
Venendo allo spettacolo, come ho provato a scrivere, la figura di Antigone è usata per svelare la sottomissione al potere dispotico (la “doppia morale” di Creonte) della città di Tebe, che fonda il potere stesso di Creonte. La cronaca dei nostri giorni, che alla fine dello spettacolo esce con prepotenza, è restituita nello Stato di terrore costruito da Creonte per legittimare il suo ordine di non seppellire Polinice. Paura, ripeto, legittimata dagli stessi cittadini: hanno voluto l’uomo forte al comando per stare al sicuro e, invece, sono più insicuri. Ma non lo ammettono, perché ormai sono soggiogati dal capo.
Per questo, Creonte (o Salvini) vanno affrontati prima dentro di noi: per minare le basi del loro consenso.
Ho citato “Disamistade”, ma di Fabrizio De André l’Antigone di Archivio Zeta canta anche “Nella mia ora di libertà”: “Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni.”
Matteo Brighenti.