FILIPPA ILARDO | Sembra navigare in un mare di pietra il Castello di Sperlinga, alto e imponente che non ti lascia capire dove ha operato l’uomo e dove la natura. Lì, tra sagre del tortone e incontri per un ripensamento del ruolo dei borghi, ad un’ora circa dal primo sbocco autostradale, si inventa il Festival Teatro in Fortezza un gruppo affiatato di teatranti catanesi, che, sotto le mura imponenti della roccaforte scavata nell’arenaria, impiantano uno spazio teatrale, mettendo in scena sette spettacoli di cui uno prodotto in residenza proprio nella piccola cittadina dell’ennese.
Adattato, riscritto, rielaborato, eppure fedele al testo di Euripide, Ippolito, in cui regia di Nicola Alberto Orofino riesce a vivificare il testo classico che risulta mosso e con infinite variazioni di toni, dal tragico al comico, dalla lievità farsesca, all’intensità commossa di certi momenti in cui passioni estreme e dramma prendono il sopravvento.
Ambientato in un giardino estivo, con al centro una panchina e ai lati due colonne che reggono altrettanto ritratti di due dee, Afrodite e Artemide, un gioco di simmetrie per le due divinità che incorniciano tutta la tragedia, impregnandola della loro presenza.
Luana Toscano, è una Venere in corsetto di pizzi e velluti, dea del desiderio erotico e della passione, maliziosamente spumeggiante, beffardamente ammiccante, offesa dal giovane Ippolito, Gianmarco Arcadipane, un misto di purezza e puritanesimo, che si mantiene casto per devozione ad Artemide, scatenando così l’ira della dea dell’amore, che, infatti, si vendica. A dimostrare la forza dirompente dell’amore, la dea squassa il cuore di Fedra, una convincente Egle Doria, moglie di Teseo e matrigna di Ippolito, facendola ardere di un amore incontenibile verso quest’ultimo, un amore che la divide anche da sé stessa. A far detonare l’ordigno teatrale, innescando una comicità latente, ovattata, è Silvio Laviano, nella parte del Coro, spirito e soffio vitale della tragedia, umbra, demiurgo.
È alla base della nascita del teatro – come suggerisce Aristotele – questo dialogo tra il coro e il personaggio, e anche la considerazione del coro come attore, parte integrante del tutto e partecipe all’azione, ancora di più, in questo caso, una presenza capace di insufflare all’azione ritmo, energia, ironico distacco. Laviano smorza i toni e scatena il dramma, ed è questo il maggiore pregio di questo lavoro, la capacità di coprire tutto con il velo di un’ironia, che fa emergere tra le righe della drammaturgia classica, una comicità tagliente. A dare carattere alla messa in scena, le textures musicali che ci riportano al genere musical, un gioco di contrasti con sottolineature melodrammatiche e mielose qui usate con lucido distacco.
Non molto aggiunge invece l’ambientazione vagamente anni 50, con la nutrice che diventa schiavetta nera, per far risaltare, nel perbenismo di quegli anni, la portata rivoluzionaria di un amore proibito che travalica gli schemi dello stereotipo borghese.
Il testo destrutturato acquista comunque vigore e freschezza, a tratti incanta, a tratti stupisce, sicuramente osa e questo ci piace. Un gioco teatrale che da tragedia si fa beffa, come le due dee che, sul finale, si prendono gioco, senza un briciolo di pietà, degli esseri umani.
Ippolito
di Euripide
Con Egle Doria, Silvio Laviano, Luana Toscano e Gianmarco Arcadipane
Regia di Nicola Alberto Orofino
Scene e costumi: Vincenzo La Mendola
Assistente alla regia: Gabriella Caltabiano
Progetto Grafico: Maria Grazia Marano
Comunicazione e media: Stefania Bonanno
Sartoria: Grazia Cassetti
Produzione: Madè Associazione Culturale