ILARIA COSTABILE | Esiste da sempre un legame indissolubile tra letteratura e teatro, ma non sempre risulta un’operazione semplice far in modo che una delle due forme espressive si adatti all’altra. E’ per questa ragione che, quando fatta bene, la trasposizione teatrale di alcune pietre miliari della letteratura, puntualmente,  porta con sé una particolare fascinazione. Se il romanzo in questione è poi un capolavoro della narrativa mondiale come Cent’anni di solitudine, il fascino che accompagna la trasformazione della parola scritta in una rievocazione di immagini sonore diventa assoluto.

Sullo sfondo costruito dalle lastre di pietra e tufo che danno forma all’ imponente, quanto suggestivo, Maschio Angioino appare un palcoscenico scarno, al centro del quale si innalza l’asta di un microfono, mentre alle sue estremità sono adagiati un baule che funge da seduta, ai cui piedi si trova una piccola valigia compatta e degli indumenti non perfettamente riconoscibili, tra cui spunta il corno di un grammofono; oggetti che verranno utilizzati spesse volte nel corso della rappresentazione. Quattro uomini, uno vestito in nero e tre con indosso una camicia rossa, abitano la scena.

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Foto di Nina Borrelli

«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio››  così si apre l’opera più nota di Gabriel Garcia Marquez e allo stesso modo la voce di Paolo Cresta squarcia il buio della scena dando inizio allo spettacolo.

Si apre qui la storia della famiglia Buendìa non raccontata con un succedersi di scene in cui si distinguano i molteplici personaggi, ma tutto è lasciato all’abilità dell’unico attore in scena, che narra quasi come un flusso di pensiero le varie vicende. Accompagnato dalle musiche del trio Ringe Ringe Raja, che intonano motivi dal sapore latino, malinconico, talvolta energico e brioso alternando chitarra acustica, violoncello e fiati come il clarinetto e il sax.

Il racconto dell’intricata famiglia si ripercorre in un incatenarsi di parole, suoni ed immagini, che sembrano aleggiare sulla scena. Si descrive la nascita della cittadina di Macondo per mano di Josè Arcadio, l’arrivo dello zingaro Melquiades unico contatto con il mondo esterno, prendono vita gli intrecci amorosi di Josè Arcadio e Pilar Ternera e la nascita del figlio Arcadio, nonché gli eventi stranianti come la contagiosa insonnia di Rebeca accolta dalla famiglia e, per la mancanza di sonno, la conseguente perdita di memoria dei Buendìa; la pazzia di Jose Arcadio, l’arrivo del prete, il racconto fuggevole delle guerre civili tratteggiato dal secondo incipit più noto del romanzo, e fedelmente riportato, in cui emerge la figura del colonnello Aureliano Buendìa scampato più volte alla morte e uomo più temuto del governo.

Un insieme di realtà e magia, di racconti popolari e stralci di storia vera è ciò che si trova tra le righe di Cent’anni di solitudine. Le solitudini di un’umanità abbandonata a se stessa, un’umanità concentrica da cui si ha la sensazione di non poter fuggire, che malgrado gli intrighi a volte difficili da comprendere incanta il pubblico in un altalenarsi di gioia, risa, dolore e follia. Circa cento minuti di spettacolo, intervallato da attimi di silenzio, riempito dalla musica onnipresente, quella musica che ha esasperato i momenti di tensione e reso leggeri i momenti di pura comicità e sarcasmo.

Il Pozzo e il pendolo, ormai noto come Teatro di ricerca nel panorama partenopeo che da anni si presenta come una realtà autonoma non supportata da fondi pubblici,  porta come sua appendice la frase “dove vivono le storie” e in effetti è proprio quello che è accaduto in una serata di inizio Settembre, tra gli ultimi scampoli d’estate: la gestualità, la voce profonda e avvolgente di Paolo Cresta ha ricreato quei Cent’anni di solitudine frutto della penna del Premio Nobel colombiano, raccontati e mostrati al pubblico quasi  come una vicenda antica da narrare, facendo emergere il piacere dell’ascolto, dell’attenzione e la curiosità per qualcosa che, pur sapendo sia il frutto di una finzione, allo spettatore piace pensare che in un tempo remoto e perduto sia accaduto davvero. Lo spettacolo Cent’anni di solitudine diretto da Annamaria Russo con la collaborazione di Ciro Sabatino rientra, infatti, in una piccola rassegna nota con il nome di Settembre al Castellonella quale emerge l’attitudine della compagnia Il Pozzo e il pendolo per un particolare modo di far teatro ovvero tramite il racconto, motivo per cui oggetto delle rappresentazioni sono perlopiù opere letterarie, che da circa sette anni rientrano nel programma di un vero e proprio Festival di Teatro/Racconto che si svolge nei giardini del Real Orto Botanico di Napoli.

Un’operazione suggestiva ed interessante quella di riportare in auge l’arte del racconto, assecondando forse i gusti di un pubblico non più avvezzo alla lettura del cartaceo, ma predisposto a lasciarsi condurre nei meandri di una storia con il solo supporto della voce, lasciando libera l’immaginazione e la capacità di ripescare ricordi, suggestioni.         Non stupisce infatti che Paolo Cresta abbia collaborato con lo scrittore partenopeo tra i più apprezzati del momento, Maurizio De Giovanni, per la versione in audiolibro di due romanzi “Il senso del dolore” e “La condanna del sangue” episodi della seguitissima saga del Commissario Ricciardi.

 

CENT’ANNI DI SOLITUDINE

Con: Paolo Cresta

Adattamento e regia: Annamaria Russo, Ciro Sabatino 

Musiche dal vivo: Ringe Ringe Raja