RENZO FRANCABANDERA | È un riallestimento. Il ritorno su un testo dopo poco meno di un decennio. Avevo un bel pallone rosso è il titolo della potente drammaturgia con cui una giovanissima Angela Dematté vinse il Premio Riccione nel 2009 (e il Golden Graal 2010). Carmelo Rifici ha deciso di tornare a dirigerlo, dopo la versione del 2010 prodotta dallo stabile di Bolzano ed interpretata da Andrea Castelli, nei panni del padre Carlo, e dalla stessa drammaturga, allora anche attrice, nei panni della brigatista rossa Margherita “Mara” Cagol.
Nel frattempo il testo ha avuto un grande successo anche in tutta l’Europa francofona, in particolare, dal 2012 al 2016, con lo spettacolo diretto da Michel Dydim con Richard Bohringer e Romane Bohringer, valso il premio Molière.
Il ritorno, voluto da Rifici, ora anche direttore artistico di Lugano In Scena, avviene nel cinquantesimo anniversario del 1968, e a suo modo vuole ricordare quegli anni come l’inizio di qualcosa di complicato e grandioso, che cambiò la vita di moltissimi uomini e donne, in direzioni fino a quel momento imponderabili.
Ad interpretare i due protagonisti sono ancora Andrea Castelli, sempre efficace nella parte del padre, del borghese trentino, tutto lavoro, casa e “cesa”, e una notevole Francesca Porrini: calibratissima dapprima nella parte della studentessa in Sociologia e talentuosa chitarrista (esisterebbero addirittura alcune sue esecuzioni di chitarra trasmesse dalla RAI trentina registrate proprio a fine anni Sessanta), e poi in quello della moglie di Renato Curcio dal 1969, appena dopo la laurea. Quasi due persone diverse, a conti fatti. Ed è il suo cambiamento il motivo del conflitto alla base della vicenda scenica. Margherita seguirà Renato a Milano, in una realtà allora operaia e fortemente sindacalizzata, in cui i due svilupperanno via via una rete di relazioni che li porterà nel giro di pochi anni a creare il Collettivo Politico Metropolitano prima, e poi dopo alcuni convegni semi-clandestini come quello (Novembre 1969) a Chiavari nella sala dell’albergo Stella Maris, per paradosso in locali della curia, le Brigate Rosse.
Lei, da piccolo e timido talento di periferia, a protagonista della sovversione armata.
Ci riporta alla vicenda sempre con il testo della Demattè questa nuova e bella produzione di LuganoInScena, TPE Teatro Piemonte Europa e CTB Centro Teatrale Bresciano, con le musiche di Zeno Gabaglio sempre di contrappunto storico, come pure i costumi vintage di Paolo Di Benedetto, dentro la macchina scenica resa viva e permeabile allo sguardo in controluce, grazie all’efficace disegno luci di Pamela Cantatore.
Il nuovo ambiente a forma di L (nella foto a sinistra), circondato da una alta parete di metallo perforato, permette lo sviluppo di una importante parte dello spettacolo in un retro emotivo, una sorta di paratia dell’anima, la parte dell’individuo inaccessibile, a cui si arriva superando la barriera fra ciò che si appare agli altri e ciò che si è fino in fondo.
Come è possibile verificare dal confronto fra la nuova scenografia e quella di Guido Burganza del primo allestimento (foto a destra), il nuovo impianto, pur mantenendo il riferimento all’interno domestico, è più simbolico e meno simmetrico, manca del riferimento alla religione paterna allora assai incombente, mentre una videoproiezione puttosto “eye-catching“, dapprima sfuocata e poi via via più nitida, fa apparire il dio dell’ideologia di lei, quel Lenin la cui effigie si sovrappone nello spettacolo ora al sembiante paterno ora a quello di lei.
Questo espediente risulta, però, elemento un po’ problematico, perchè oltre che tenere velato un simbolo la cui leggibilità da parte dello spettatore avviene con ritardo, aggiunge un altro problema: l’immagine sfuocata incombe per tutto lo spettacolo occupando una porzione importante dello sguardo, ma l’overlapping con gli attori protagonisti (peraltro onestamente di scarsa rilevanza simbolica) necessita in un paio d’occasioni dell’intervento di un tecnico per la proiezione, costretto ad entare in scena.
Più che riportarci agli interrogatori delle BR, o ad elementi brechtiani di interruzione/irruzione della verità, questo ingresso a pochi metri dallo spazio scenico agìto dagli interpreti, rompe un po’ il senso logico della costruzione, dei suoi incroci e rimandi.
Assai più utile e meno invasiva la piccola televisione presente a sinistra della scena, quel tuffo sulla Storia a cui l’occhio dello spettatore getta di tanto in tanto l’occhio, a riguardare la fiumana di gente in strada, le manifestazioni, il repertorio documentale, che però la parola drammaturgica ha la forza di spingere fondamentalmente fuori dal fuoco scenico.
Il conflitto psicologico si trasferisce anche sul piano linguistico, nel momento in cui Margherita diventa Mara, e passa dall’amorevole confronto con il padre in dialetto all’uso di un italiano sempre più freddo e distante, infarcito di quel vocabolario politico la cui retorica il padre sbeffeggerà proprio per mostrare la distanza che segna fra i due.
Sono considerazioni assolute di una partitura scenica molto ricca e che portò la giovane Demattè ad un meritato successo.
Un videodocumentario fra storia e spettacolo risalente al tempo del primo allestimento già sviluppava questi temi su psicologia e lingua dei personaggi, e proprio per l’accuratezza e la profondità delle interviste allora raccolte a drammaturga e regista, lo riproponiamo anche in questa nostra riflessione multimediale per completezza argomentativa.
«La storia delle BR – dice Rifici ora– è un pretesto usato dall’autrice per addentrarsi in un terreno più fecondo e misterioso: quello delle relazioni umane profonde e dell’impossibilità di quella relazione». La regia si muove proprio nella direzione di mettere questo confronto profondo al centro della recita, senza togliere alla parola e ai due caratteri così ben delineati la centralità con operazioni di inutile segno. Peraltro il testo dell’allora giovanissima Demattè include anche interessanti elementi postdrammatici, mettendo di tanto in tanto sulla bocca dei due personaggi piccoli estratti da bollettini storici, note da tg, notizie, cosicchè i due si fanno portavoce di volta in volta della Storia, oltre che della loro storia: proclami e rivendicazioni nella voce di Margherita che diventa Mara; più istituzionale e da tg della sera la voce del padre.
E così davvero si torna a casa affamati di conoscere, affiorano dalla memoria le bellissime puntate de La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, ancora disponibili nella teca di Raiplay da cui è estratto il video seguente, dedicato proprio al periodo fra il 69 e 73 in cui nacquero e si strutturarono le Brigate Rosse.
È questo il periodo delle visite del padre a Margherita a Milano, incontri di cui lo spettacolo sa rendere la durezza emotiva, la progressiva distanza fra i due, silenzi, rapporti di forza che si invertono fino a quando Margherita, la timida e composta ragazza, non arriva ad alzare la voce con il genitore. I piani emotivi e il loro modificarsi sono resi in modo davvero notevole dai due interpreti, che meritano i lunghi applausi finali.
Lo spettacolo, accolto all’interno del Festival FIT, ha (e ovviamente per alcuni anche no) il pathos di chi sa come va a finire ma spera comunque che non succeda, che la deriva non abbia luogo. È il duro gioco del passato incancellabile, con cui il teatro si diverte sempre a giocare. Da questo punto di vista la scrittura è esempio lampante di una costruzione precisa, dentro le regole di questo genere letterario teatrale, diremmo quasi da manuale. Forse la regia con la video proiezione prova ad aggiungere proprio quell’elemento onirico, di illeggibilità, di “sporco”, che però ha quegli elementi critici, a nostro avviso, di cui abbiamo fatto cenno.
Ma al netto di questa considerazione, lo spettacolo si prospetta come una delle visioni più interessanti e probabilmente frequentate della prossima stagione teatrale, a giusta ragione, perchè merita. E non è impensabile che non veda riconosciuto l’impegno con qualche premio.
La fine della vicenda è sempre la stessa. Nel 1975, come oggi.
Dopo aver dato lei stessa il nome alla formazione terroristica mentre passava con i suoi compagni di lotte in macchina per Piazzale Loreto, dalla sua entrata in clandestinità in poi, Margherita “Mara” parteciperà a tutte le azioni delle Br. Fra queste il sequestro che durò oltre un mese del giudice Mario Sossi (dal 18 aprile al 23 maggio del 1974), la prima grande azione di rapimento e processo politico. Nel febbraio 1975, la Cagol riuscirà a condurre a termine la spettacolare evasione di suo marito Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato dove era rinchiuso dal settembre dell’anno prima.
La Cagol morirà il 5 giugno del 1975 in un conflitto a fuoco con una pattuglia di carabinieri, presso la cascina Spiotta -nel comune di Melazzo- vicino Aqui Terme, dove le BR tenevano prigioniero l’industriale torinese del vino Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima. Nel conflitto, in cui furono usate anche bombe a mano, perse un braccio ed un occhio il tenente Umberto Rocca, che era accompagnato nella perlustrazione da due coleghi, uno dei quali, Giovanni D’Alfonso morì dopo alcuni giorni per le ferite infertegli dal conflitto a fuoco con la Cagol. Nell’ultimo video che vi proponiamo, l’intervista di Enzo Biagi al tenente Roccca dopo i fatti.
Avevo un bel pallone rosso
di Angela Dematté
regia Carmelo Rifici
con Andrea Castelli, Francesca Porrini
scene e costumi Paolo Di Benedetto
musiche Zeno Gabaglio
luci Pamela Cantatore
produzione LuganoInScena, TPE Teatro Piemonte Europa, CTB Centro Teatrale Bresciano
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.