RENZO FRANCABANDERA | L’Autunno milanese si apre ormai da oltre 30 anni con una delle maggiori rassegne di danza italiane, MilanOltre. Giunta al 31° compleanno, la rassegna, ormai da diversi anni ospitata negli spazi del Teatro dell’Elfo, conferma la sua apertura alle molteplici espressioni e declinazioni della danza contemporanea, portando a Milano (e prima anche in alcuni spazi particolari della Brianza) artisti del calibro di Stephen Petronio Dance Company [New York], Alonzo King [San Francisco], Karole Armitage [New York], Lalala Human Steps [Montréal], Fura Dels Baus [Barcellona], Anne Teresa De Keersmaeker [Bruxelles], Marie Chouinard [Montréal], Trisha Brown [New York] e tantissimi altri ovviamente anche italiani di cui sarebbe lunghissimo fare i nomi. I migliori ad ogni buon conto. Non solo: da ormai diverso tempo ai linguaggi istituzionali e agli artisti consolidati, la rassegna avvicina giovani promesse del linguaggio, nuovi creativi che utilizzano la vetrina per far conoscere le loro proposte più recenti. Non di rado si creano dei veri e propri focus, delle ‘personali’ dedicate a compagnie e coreografi come quella dell’anno scorso per Zappalà Danza, o quest’anno per Simona Bertozzi/Nexus. Le ultime edizioni, infatti, oltre che ospitare masterclass e incontri, si sono strutturate in focus nazionali e internazionali e nelle sezioni Vetrina Italia e Vetrina Italia Domani, panoramica sulla coreografia italiana under 35. La settimana appena trascorsa, l’ultima di Settembre, ha visto in scena alcune notevolissime creazioni internazionali e un affaccio sulla realtà italiana.
La delizia è stata come sempre l’incontro e la conoscenza di culture lontane, filtrate dallo sguardo dell’arte. La pratica del saluto orientale che diventa uno spettacolo, fatto di gesti ancestrali e modernità, di rituali coreutici secolari e nuovo senso dello spazio e del corpo che con questa tradizione cerca dialogo ed armonia, come appunto in Bow, del Laboratory Dance Project della coreografa coreana Mi-sook Jeon.
Di base negli Stati Uniti, la coreografa, fra le maggiori nel suo Paese, ha studiato danza e coreografia contemporanea presso la London Contemporary Dance School. La creazione si basa su alcuni postulati di movimento ma anche compositivo-pittorici molto netti. L’apertura è un rituale di meditazione, saluto e offerta di tè, scene quasi costitutive di un immaginario orientale in cui l’elemento della pausa nel gesto, della valorizzazione del tempo lento, del movimento che prende il massimo dell’intenzione e dell’attenzione sono centrali. Quasi un breviario per quello che seguirà, che andrà via via ad amplificare queste azioni in una coralità composita, arricchita dal tradizionale ventaglio, usato per creare immagini corporee non convenzionali oltre a un contrappunto ritmico fondante dell’unità dei ballerini che aprono all’unisono i ventagli facendoli schioccare nell’aria. Vaporosi i pantaloni, di tulle trasparente azzurro, capaci di combinarsi con un fondale che per tutto lo spettacolo prenderà variazioni tonali monocrome. Il contrasto o la concordanza dell’elemento cromatico di fondo con gli abiti dei danzatori costituisce un’ulteriore ricchezza per lo sguardo, che naviga fra rito antico e moderno. Una “chiccheria“ per lo sguardo occidentalizzato, troppo uso alla saturazione, all’assenza di elemento intervallare. Qui invece la pausa, l’intervallo, il ritmo e la geometria compositiva sono proprio la base, la sostanza su cui poggia l’elemento compositivo.
Un ossimoro estetico per taluni versi sconvolgente quello a cui si assiste il 29 fra il Bow della compagnia coreana e uno spettacolo di oltre un decennio fa ma che ha in sé tutto il portato di dolore e di segni della nostra cultura coreografica. Della composizione e scomposizione del corpo danzato nel postmoderno Euro-americano. Benoît Lachambre e Louise Lecavalier hanno riportato a dodici anni di distanza dalla sua creazione del 2006, l’assolo “I” Is Memory, una coreografia che vede in scena l’icona della danza contemporanea canadese, una figura che ha attraversato l’ultimo quarantennio della danza, contaminando il post punk con la musica dei suoi massimi interpreti della pop più raffinata, collaborando con Bowie, Zappa e tantissimi altri, aderendo al collettivo La La Human Steps.
In questo video di repertorio la danzatrice è impegnata in un passo a due che racconta tutte le peculiarità di uno stile di grande intensità acrobatica fondato su un lavoro del corpo che trovava la base in un training fisico massacrante. A lei si deve secondo molti l’invenzione del movimento danzato del “*side* barrel roll” o “*sideways* barrel roll”, rotazioni laterali con avvitamento, eredità di pratiche ginniche prossime alle arti marziali, e capaci, se eseguite male, di far terminare carriere di ballerini troppo avventurosi.
Quasi dalla nemesi nasce quindi “I” Is Memory, una composizione che racconta dei postumi del ritorno al suo corpo di Louise Lecavalier dopo una frattura all’anca che la ha costretta ad una immobilità forzata a lungo.
Micro movimenti in una sorta di riesplorazione del mondo, una stanza, nel buio della paura di non riuscir più ad essere se stessa, quella che era stata. E forse davvero è stato così.
Micro movimenti che riprendono senso, su di un corpo che ancora non ritrova, o appena appena inizia a ritrovare, un centro unico di decisione del movimento, del controllo sugli arti.
Le caviglie innaturalmente piegate in avanti, in difficoltà a rispondere al processo di riacquisizione della posizione eretta, che infatti fatica a darsi, un processo che deve scavare nella memoria per ricordare come era stare dritti in piedi, essere se stessi: “I” Is Memory, appunto, per uscire dalla gabbia che le luci in alcuni momenti rievocano, senza però riproporla in modo didascalico, fra la sedia della degenza e la sbarra dell’esercizio di danza.
Nel farsi Storia della coreografia, a dieci anni e più dall’esser stato narrazione della propria vicenda, il pezzo sicuramente riprende il senso estetico di quella creazione, la sua micro-perfezione. Per altro verso, diremmo quasi inevitabilmente, perde l’offerta a noi di quella sofferenza terribile e della gioia liberatoria che doveva averlo fatto nascere. Inevitabile, diremmo.
Chiudiamo con Sanpapiè, il nucleo artistico di danza e physical theatre coagulatosi intorno alla figura di Lara Guidetti, ballerina e coreografa attiva con questa formazione da oltre un decennio, con al fianco la collaborazione stabile del musicista (e qui dramaturg) Marcello Gori. La sfida di questa performance urbana site specific è nel creare un’opera coreografica sulla singolare composizione A 1 Bit Simphony dell’artista newyorchese Tristan Perich, primo album in assoluto pubblicato sotto forma di microchip, sinfonia in 5 movimenti ispirata alle influenze musicali più disparate (da Strauss al mondo sonoro dei primi Nintendo, passando per Glass e Reich), tutta interna all’estetica della matematica, della logica binaria, del bit.
Di seguito proponiamo un’intervista all’artista con alcuni estratti della composizione.
Su questa composizione la Guidetti e il gruppo di lavoro realizzano una performance urbana ibrida, che parte dal foyer del teatro dell’Elfo sotto forma di audiopercorso guidato, e si sviluppa per circa un chilometro da Corso Buenos Aires fino alla fermata del passante/metro di Porta Venezia con accesso in Piazza Santa Francesca Romana.
È una piazza, come noto agli abitanti della zona, non di rado occupata da giovani e giovanissimi adepti della danza urbana che provano coreografie, gruppi dalla connotata matrice etnica, molti latinoamericani. È comunque un luogo del movimento del corpo, da cui gli spettatori entrano nella pancia della città, accendendo con la scala mobile a quell’intestino frettoloso e caotico dove migliaia di vite ogni giorno si incrociano senza mai conoscersi, si scontrano senza mai attaccarsi, si attaccano corpo contro corpo senza compenetrarsi.
Il percorso fra il foyer e la subway è accompagnato da un racconto dello spazio urbano che avviene per il tramite di una voce narrante che guida gli spettatori muniti di audiocuffie in un excursus storico che spazia nella vicenda architettonico-urbanistica di questo quartiere e della città, strizzando (un po’ troppo) l’occhio a creazioni in stile Rimini Protocoll. Inevitabile andare con la mente a Remote(X), che Milano ha conosciuto con grande partecipazione di pubblico un paio di anni fa.
La sensazione, per questa prima parte, che prelude all’immersione nello spazio della stazione sotterranea, è certamente interessante per chi non ha mai sperimentato incontri di questo genere con il sistema urbano, un po’ deja-vu per chi ha già vissuto quell’intreccio fra audiopercorso e ambiente metropolitano, richiamando esplicitamente quelle specifiche ed accattivanti tecniche della narrazione, fatte di corrispondenze fra sonoro (dunque del virtuale) con il mondo reale, quello che gli occhi percepiscono, in movimento, nel lì per lì: è un tentativo di racconto della città come forma di vita autonoma, essere vivente che, con un altro omaggio, questa volta diremmo ad uno dei massimi lirici contemporanei della canzone, “mastica e sputa”.
A ben guardare, e senza che questo scandalizzi, A(1)bit è in fondo, in questa parte della creazione, esattamente questo: una rielaborazione della città dei segni artistici che l’hanno attraversata qualche tempo prima, una digestione, una suzione di sostanze nutrienti che danno vita ad altro corpo artistico.
La sensazione di prossimità con quella creazione “matrice” svanisce poi del tutto appena si scende nella fermata della stazione, appena inghiottiti nell’intestino della città, non appena parte la musica di Tristan Perich, creazione sonora praticamente assente di intervalli, di pause, intimamente frenetica e “piena”.
I temi della ricerca sul movimento che prende vita negli spazi underground sono proprio ispirati a questi incroci inarrestabili dell’esistere, dell’essere e dello sparire, ben interpretati da giovani danzatori di DanceHauspiù.
La sinfonia di Perich arriva nelle orecchie incontrando il movimento dei ragazzi, a loro volta energici e pop, così concettualmente anello di congiunzione fra esperienza musicale, inquietante e originale, ed esperienza coreografica, ricca e performativa quanto basta a far vivere al gruppo di spettatori prima il senso di essere fra i tanti, poi quello di essere individui soli, e poi quello di essere comunità sotto assedio della fretta, circondata da minacciose urgenze, capaci poi all’istante di dissolversi nel nulla, esattamente come quelle del lavoro quotidiano, dei mille uffici illuminati con scrivanie a vista dall’esterno, della piccola America italiana, o di un incontro fugace di sguardi, di desiderio. La seconda parte di questo lavoro, che in queste scene convulse ma non distratte trova compiutezza e originalità, ci piace tantissimo.
BOW
coreografia Mi-sook Jeon
interpreti Set-byeol Lim, Sung-hyun Kim, Na-ra Yoon, Ho-young Shin, Joo-hee Lee, Yoon-joo Han, Seung-wook Song, Ha-neul Jung, Jeong-eun Lee, Hyun-woo Bae
musica Jae-deok Kim
luci Jung-hwa Kim
costumi In-Sook Choi
durata 67′
prima nazionale
“I” IS MEMORY
coreografia Benoît Lachambre e Louise Lecavalier
interprete Louise Lecavalier
musiche Laurent Maslé
luci Jean-Philippe Trépanier
riallestimento luci Alain Lortie
oggetti di scena Louis-Philippe Saint-Arnault
maître du ballet France Bruyère
produzione 2006 Fou Glorieux
coproduzione STEPS # 10, Svizzera, Théâtre de la Ville, Parigi, Tanz im August – International Tanzfest, Berlino, Aarhus Festuge, Aarhus, Centre national des Arts, Ottawa, l’Usine C, Montreal
A(1)BIT
coreografia Lara Guidetti
dramaturg Marcello Gori
performer Fabrizio Calanna, Sofia Casprini, Lara Guidetti, Matteo Sacco, Lara Viscuso e i danzatori di DanceHauspiù
installazioni Maddalena Oriani
grafica e foto Stefania Grippaldi, Pierluigi De Astis
una produzione Sanpapié in collaborazione con MilanOltre, Festival Exister, DanceHauspiù, Sentieri Selvaggi
durata 20′