ILARIA COSTABILE | Parlare di Michelangelo Antonioni: si volge inevitabilmente lo sguardo all’incomunicabilità,  a un tangibile disagio esistenziale,  a quella imminente necessità di affrontare una latente ma al contempo forte crisi della modernità, quella che attanagliava la società degli anni Sessanta e Settanta e  che ancora dialoga con il nostro presente. A distanza di quasi sei decenni il bisogno di sviscerare questi “mali del secolo” sembra non essere cambiato nonostante il secolo sia passato; e infatti, l’urgenza con cui si affrontano certe tematiche torna preponderante nel luogo per eccellenza simulacro della realtà: il teatro.

La drammaturgia di Deflorian/Tagliarini (qui una recente video intervista di Renzo Francabandera al duo, già Premio Ubu 2014 con Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni –che approfondisce i principali filoni di indagine artistica) nello spettacolo Quasi Niente, presentato in anteprima nazionale al Roma Europa Festival 2018 presso il Teatro Argentina, riprende apertamente gli stilemi del regista ferrarese e della pellicola che lo ha consacrato nell’Olimpo dei grandi artisti del cinema, Il Deserto Rosso. 

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Ph. Claudia Pajewski

Deserta è infatti la scena, spoglia, asettica, disegnata dalle suggestioni di Gianni Straropoli, che ambienta la vicenda in un luogo la cui identità non sembra essere definita, un’anticamera cerebrale in cui far rimbombare l’eco del proprio vissuto. Al centro un telo opaco che funge quasi da sipario, dietro il quale compaiono uno a uno gli attori: Benno Steinneger, Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Antonio Tagliarini e Monica Piseddu, vestiti di colori tenui, dall’aria borghese, frutto dell’estro di Metella Raboni.

Dinanzi alla copertura fittizia del telo attraversato da giochi di luce dal blu al verde, si trovano alcuni mobili poggiati, sembrerebbe a caso, sul palcoscenico: una poltrona rossa, un armadio senza ante, un cassettone di legno antico, alcune sedie e una radio; il tutto circondato dalle strutture a vista di quinte inesistenti. A interrompere la musica – Il surf della luna di Giovanni Fusco, colonna sonora del film che, in un crescendo, riempie l’ampio vuoto della scena, con quel motivetto tra il malinconico e il comico –, sono le parole della Quarantenne – Monica Piseddu –, che avanza sul proscenio.

«Io non ce la faccio»: così esordisce l’attrice dando il via a una serie di confessioni, a quel flusso di pensiero con cui la coppia teatrale Deflorian/Tagliarini è solita indagare le solitudini degli uomini, le loro ansie, le difficoltà di rapportarsi con il mondo e chi lo vive. Seduta sulla poltrona rossa la donna racconta di sé, dell’incapacità di credere che si possa parlare davvero in maniera sincera; dischiude la sua mente gettando le basi dell’incorporeità che sottende allo spettacolo, quell’ immateriale che è proprio del pensiero, accolto nella sua essenza.
Pensiero e memoria si intrecciano nei racconti dei protagonisti, che siedono, a turno, sulla poltrona quasi fosse un amplificatore del proprio sentire, un lettino a suo modo psicanalitico. Ed è qui che la donna matura (la Sessantenne) impersonata da Daria Deflorian si presenta come una donna in preda a paranoie quotidiane,  costretta a chiudersi in bagno come in cerca di un rifugio, quando desidera che il mondo esterno non incomba sui suoi pensieri.

Ph. Claudia Pajewski

Il Cinquantenne – Antonio Tagliarini –  è invece un uomo vessato dalla figura del padre, soggiogato a sua volta dai rapporti di potere, un uomo che non sa bene dove sia il suo vero posto nel mondo, che preferirebbe partire per ricominciare daccapo, in una città in cui nessuno lo conosce, portando con sé «due valigie, quasi niente», dice, catturando il centro della scena: sotto gli occhi dei coprotagonisti e del pubblico man mano si vede plasmarsi il suo io, la sua intimità più vergognosamente nascosta.
Giunti a questo punto svaniscono le prime parole della Piseddu, con  le quali esortava la platea a girarsi per non guardarla, per nascondere la sua fragilità; si sgretolano nella condivisione, si mescolano nelle canzoni accennate a cappella dalla Trentenne, Francesca Cuttica che canta «Cerco spazi di disagio esistenziale / per tornare a immaginare/ come essere normale / ritornare elementare».  Ecco, questo è il fulcro del dramma, ritornare a quella normalità che l’alias del Corrado di Deserto Rosso, qui Benno Steinneger, cerca disperatamente, afferrando in preda ad un raptus, quello che fino a quel momento era stato il portale delle confessioni di ognuno e facendolo girare vorticosamente, senza sosta. Quella stessa normalità che la Giuliana di Antonioni, persa in una depressione mai acclarata si sforza di trovare, ma non troverà, e che si esaurisce nell’ ammissione «io non sono guarita e non guarirò mai».

Ph. Claudia Pajewski

Il Deserto rosso è qui rivisitato, riletto nelle sue sfumature più introspettive, riportando alla ribalta il “male oscuro”, quell’inadeguatezza del non sapere come vivere, quella necessità di dover mettere a tacere le parti di sè più complesse, sacrificate al dover essere come gli altri, il tutto incarnato dalla sola figura di Giuliana, protagonista del film ed essenza di Quasi Niente, nel suo essere donna, ma eterna bambina desiderosa di essere ascoltata, però mai compresa fino in fondo. Uno spettacolo che, ritornando alle parole della Quarantenne,  se avesse avuto una struttura, se avesse avuto una trama, sarebbe stato più facile da gestire; ma che forse proprio come il male oscuro ha ragione di sè, nell’incomunicabile discontinuità; un lavoro inframmezzato da letture e riferimenti letterari da Alice Munro a Jakob von Gunten, che arricchiscono la nebbia di pensieri con la quale la compagnia Deflorian/Tagliarini avvolge gli spettatori, irretiti dalla normalità delle stramberie altrui che provocano risa gaudenti e partecipate, preludio di atterraggi forse meno tranquilli in zone più vorticose dell’inconscio individuale.

Il finale di Quasi Niente è la rappresentazione della domanda che ognuno di noi si pone, da sempre: come districarsi tra le anomalie esistenziali che la vita ci pone innanzi? Sulla scena, come in una foresta immaginaria si ergono in verticale, poggiati sui gomiti,  gli uomini e le donne poggiate sulla schiena, mentre la Deflorian legge solennemente un testo specifico su cosa sia, cosa si intenda oggi per depressione. Tutti in cerca di un equilibrio, seppure precario, momentaneo e vacillante.

Ed è nella loro alienazione, simile a quella di Giuliana ma distante, perché non più riconducibile ad un solo individuo ma alla società tutta, che uno a uno, di nuovo, gli attori lasciano la scena e ritornano a rifugiarsi nella patina grigiastra, bozzolo dello spettacolo in divenire, dopo aver dato un ordine a quei mobili spostati rabbiosamente, creando l’immagine nitida di un qualcosa che prima, forse, non c’era stato.

QUASI NIENTE
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente inspirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
collaborazione alla drammaturgia e aiuto regia Francesco Alberici
con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
consulenza artistica Attilio Scarpellini
luce e spazio Gianni Staropoli
suono Leonardo Cabiddu e Francesca Cuttica (Wow)
costumi Metella Raboni
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Metastasio di Prato
Emilia Romagna Teatro Fondazione, A.D.
in coproduzione con Théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival
Festival d’Automne à Paris, Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC
Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale – Mulhouse
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
FIT Festival – Lugano

RomaEuropa Festival
Teatro Argentina-Teatro di Roma
10 ottobre 2018