LAURA BEVIONE e RENZO FRANCABANDERA | Saper tenere sul palmo della mano una foglia secca: l’umanità consiste nel riconoscere e proteggere la fragilità, in ogni sua forma ed espressione. Michele Santeramo è autore e interprete di Storia d’amore e di calcio: un monologo delicato ed emozionante, che vira impercettibilmente dalla commedia alla tragedia, dalla spensieratezza di un microcosmo parallelo – quello dell’illegalità non come scelta quanto come obbligo per garantirsi la sopravvivenza – all’assenza di speranza in un cambiamento che rivoluzioni un destino già segnato.

Michele Santeramo - foto Pino Montisci
Foto Pino Montisci

Santeramo narra genesi, organizzazione e svolgimento del primo campionato del mondo di calcio clandestino, a eliminazione rigorosamente diretta, in cui si confrontano le nazionali delle comunità emigrate in un paese del Meridione: Brasile e Albania, Italia e India… Attorno a questo campionato, parallelo ma non meno sentito e combattuto, un inevitabile giro di scommesse e pure una struggente storia d’amore, di cui sono protagonisti l’io narrante e una ragazza indiana, che ha occhi che sanno «affogarti».

RF: Si tratta di una serie di album, di drammaturgie improprie, sporche, cui Santeramo si dedica da qualche tempo, portando il teatro al limite con l’apologo filosofico, come nel caso del simile tentativo andato in scena la scorsa stagione e intitolato Leonardo Da Vinci – l’opera nascosta, o con la sceneggiatura cinematografica,  alla quale questo lavoro più si avvicina. In entrambi i casi, un finto reading nel quale Santeramo, con un leggio, si adopera in un’esercizio di lettura teatralizzata, ma in realtà rievoca un rito di oralità quasi fiabesco. In questo caso la prossimità con l’elemento cinematografico si legge in modo più chiaro grazie alla presenza di componenti addizionali specifiche. Mentre, infatti, per la narrazione su Leonardo da Vinci sullo sfondo c’erano le immagini di Cristina Gardumi, qui…

LB:… qui, a commentare, integrare, sfumare con tonalità originali la narrazione di Santeramo, c’è la musica eseguita dal vivo da Sergio Altamura, che articola un discorso ulteriore ma strettamente intrecciato a quello verbale. Alla parola e alla musica si mescola, poi, il linguaggio visivo, con video che mostrano giornate al mare trascorse serenamente con la famiglia durante i fantastici – e remotissimi – anni del miracolo economico. Drammaturgie complementari volte a puntellare e rafforzare un racconto doloroso ed entusiasmante che, da una parte, esalta intraprendenza e senso di appartenenza di una comunità così come la sopravvivenza di sentimenti schietti; dall’altra, denuncia la crudeltà e la spietatezza della malavita organizzata.

RF: In realtà si tratta di due dinamiche narrative che non sono parallele ma l’una centripeta l’altra centrifuga. La creazione di Sergio Altamura è una vera e propria colonna sonora con un tema che si declina su diverse corde emotive attraverso una struttura “circolare”. Si tratta di quelle composizioni che capita ormai spesso di ascoltare, costruita su pattern di note che, grazie all’aiuto di registrazioni elettroniche, attivate da computer o pedaliera, si ripetono per tutto il pezzo consentendo polifonie e variazioni sul canone, quali l’aggiunta progressiva di note o di strumenti o di riff sovrapposti, in modo tale che, da un semplice tema iniziale, si arrivi a un corposo corale finale. Con questa stessa tecnica, Maurice Ravel nel 1928, avendo a disposizione un’orchestra, creò Bolero. Altamura qui realizza una onesta e sentita partitura sonora, capace di empatia e antipatia, che sa raccontare la commedia e il dramma, scivolando sulle corde sia della chitarra classica che di quella slide o hawaiana: uno strumento che si suona seduti, tenendolo sulle ginocchia e utilizzando invece che la mano, un apposito lap steel di metallo o vetro, per trarre suoni che si spingono verso l’intensità del violino e che bene Altamura sfrutta nel finale ricco di pathos.
Stranianti e, invece, centrifughe rispetto alla narrazione, sono le memorie video di un tempo che fu, connesse ma anche e più spesso “sconnesse” alla trama principale. Se ne deve la creazione a Vito Palmieri, che si sbizzarrisce con emozioni in super 8, ricorrendo a un ibrido fra filmini d’epoca di un Sud del passato, prossimo ma superato, e registrazioni evidentemente realizzate nel  presente ma che, con qualche effetto di sfocatura e saturazione cromatica, si uniformano con coerenza piena alle immagini d’epoca.
In pratica si sente una storia, si guardano spezzoni di corti, che con questa trama verbale c’entrano in parte o solo di tanto in tanto, e nel frattempo si è accompagnati nell’audiovisione da una creazione musicale pertinente e che finisce per essere fondamentale collante emotivo e di senso fra tutto. Un bel “trip”.

LB: Santeramo, con la potente discrezione e la genuina empatia che gli sono proprie, disegna una densa miniatura, esemplificativa delle passioni – il calcio, l’amore, la patria, il denaro – e delle fragilità – la viltà, la predilezione per il quieto vivere, la rassegnazione – che animano la nostra inquieta e disorientata società.
Uno spettacolo concentrato, che sa trarre forza espressiva propria dalla sua apparente semplicità.

RF: Senz’altro Storia d’amore e di calcio è una creazione godibile e intelligente, che emoziona. Due stimoli lasciamo qui, uno all’interprete e uno al drammaturgo. All’interprete l’attenzione sull’intonazione ripetuta, diciamo “da lettura santeramesca”, in certe interrogative. Al drammaturgo, invece, l’attacco un po’ brusco sulla vicenda sentimentale, che interrompe l’affresco sociale, tanto da occupare poi del tutto la drammaturgia, impedendo di fatto il ritorno alla dimensione originaria. L’abilità dello scrittore ovviamente nasconde questo piccolo irrisolto mereologico, nel quale l’illusionista scambia le carte, inizia facendoci vedere un asso, e poi lo fa sparire. Quindi sappiamo come finisce la storia d’amore, ma non cosa succede in quel paesino da dove era partito tutto, gli equilibri e gli squilibri che avevano dato il via alla vicenda.
Per certi versi Santeramo arriva a convincerci del “vabbè, chi se ne frega”, per altro verso volendo proprio dire che alla drammaturgia mancano forse dieci righe. Ma l’autore vuole lasciarci senza fiato, senza indulgenza, e quindi ha tolto quelle dieci righe, accorciato la pista di atterraggio.

LB: Di semplicità non si può certo parlare per l’altro lavoro prodotto dal teatro Era, ovvero Yorick – Un Amleto dal sottosuolo di Simone Perinelli

RF: Beh, è una creazione scenica molto ricca, carica, che per certi versi rimanda concettualmente alla satura latina; un genere, diciamo, autoctono nostrano, della penisola, come ricordava Quintiliano orgoglioso: la satira – letteralmente “miscuglio” – è totalmente etrusco-romana e deriva dall’aggettivo latino satur, “pieno, sazio” con dentro i concetti di varietà, abbondanza, mescolanza. Ed effettivamente, con riferimento a questa creazione e alle riflessioni che faceva nel suo celebre saggio L’intervallo perduto, Gillo Dorfles avrebbe detto che, ad eccezione di un paio di bui tecnici, l’opera manca del tutto della funzione intervallare. Proprio come la satira latina – anche perché ispirata alla figura del comico di corte Yorick – la costruzione di Perinelli racchiude lo spirito farsesco e  rappresentazioni di musica e danza – il primo quarto d’ora è un’opera rap/trap.
La similitudine non ci pare forzata perché la satura era messa in scena da histriones (attori) e consisteva proprio in una rappresentazione teatrale mista di danze, musica e recitazione.

Yorick_foto Manuela Giusto 2

LB: L’ispirazione originaria è nel far resuscitare dal sottosuolo e ridare voce al teschio del buffone di corte Yorick, che sollazzò anche Amleto bambino. Simone Perinelli è autore, regista e interprete di una composita partitura che, traendo ispirazione dalla scena di apertura dell’ultimo atto di Amleto, affastella suggestioni e riferimenti eterogenei: da Dostoevskij al Mago di Oz, da Leopardi a – ovviamente – Shakespeare.

RF: La tecnica decostruttiva non è di per sé un male assoluto, ed è qualcosa che a Perinelli era riuscito bene di fare con il precedente monologo ispirato al Pinocchio di Collodi e intitolato proprio Requiem for Pinocchio, creazione fra le migliori di Leviedelfool, la compagnia teatrale fondata da Perinelli nel 2010 a Roma. Una struttura creativa che vive anche del lavoro di Isabella Rotolo, e della collaborazione con diversi artisti che lavorano a singole produzioni. Leviedelfool lavora su drammaturgie originali «focalizzando il proprio percorso sui possibili nuovi linguaggi del teatro contemporaneo», come recita la dichiarazione artistica di intenti dettagliata nella presentazione sul loro sito. Per Perinelli al primo posto c’è «un vento che sparpaglia qua e là significati e pezzi di storie da rimettere in ordine sul momento e poi ci sono parole che graffiano lo stomaco e che lasciano segni». Evidentemente quindi il tema dell’esplosione originale e poi del rimettere vicini i cocci è proprio uno dei motori creativi, non un pretesto; un procedimento, ovviamente anche rischioso, perché non sempre è facile dai pezzi ricreare un’unitario intelligibile.

LB: Ecco, quell’ispirazione di cui dicevo prima viene annegata in un flusso in realtà incoerente di intuizioni e riferimenti letterari senza che si riesca a riconoscere un filo rosso solido e pregnante. Lo spettacolo, frutto certo di sincera ispirazione e necessità, risulta così velleitario e confuso e denuncia l’assenza di un occhio esterno che potesse guidare l’autore e l’interprete a individuare un unico e unitario motivo narrativo/significativo sul quale concentrare il proprio lavoro.

RF: Sono d’accordo sul fatto che la satura abbia preso talmente la mano da non permettere all’artista una selezione dei contenuti in grado di valorizzare alcuni episodi di ispirata qualità come, fra gli altri, quello della chiamata dall’alto:  l’attore in cima a una scala con una cornetta calata dall’alto, a parlare di vita e morte in una trasposizione poetica decisamente elevata. Ma questo poi è preceduto – e seguito – da molti, troppi altri segni. Anche nell’ipotesi in cui si volesse utilizzare il troppo pieno per intendere come ansiogenamente ci riempiamo la vita di qualunque cosa per sfuggire all’ansia della morte, alcune regole della costruzione andrebbero comunque rispettate in nome della limpidezza del segno stesso. Persino talune immagini disegnate proiettate sullo sfondo, riproducono questa pienezza ininterrotta di segni. Luci, musica, disegni, parola: alla fine tanta è la fame di pausa nello spettatore, che in corrispondenza di un buio tecnico di scena, qualcuno batte le mani. Non è la fine. Ma un segno che rendiamo all’artista per riflettere sulla leggibilità dell’operazione e sulla necessità di svilupparla, forse non con un requiem, che l’ha già fatto, ma regalandoci qualche intervallo di requie sì. Intervalli che consentano allo spettatore micro riflessioni sulle sue migliori idee – che pure non mancano – specie quando si resta lontani da “benismi e latinismi” che, volontari o involontari che siano, permeano il tutto di un effetto dejavu che induce poi a sfavorevoli paragoni. Più utile rimanere nelle proprie abilità specifiche, valorizzandosi al meglio, distillando efficacemente il percorso di ricerca da cui si proviene, per cercare ancor più se stessi: con meno e meglio.

 

STORIA D’AMORE E DI CALCIO

di e con Michele Santeramo
regia cortometraggi Vito Palmieri
montaggio corti Paolo Marzoni
progetto video Orlando Bolognesi
musiche originali Sergio Altamura
produzione Fondazione Teatro della Toscana

YORICK
Un Amleto dal sottosuolo

drammaturgia, regia e interpretazione Simone Perinelli
disegno luci e scene Fabio Giommarelli
costumi Labàrt Design di Laura Bartelloni
musiche originali Massimiliano Setti
tecnico del suono Marco Gorini
produzione Fondazione Teatro della Toscana, Leviedelfool;
con il sostegno di Pilar Ternera/Nuovo Teatro delle Commedie, ALDES/SPAM!

Teatro Era di Pontedera (PI)
13 ottobre 2018

www.teatroera.it
www.teatrodellatoscana.it
www.leviedelfool.com