RENZO FRANCABANDERA | Era finanche ovvio, ma forse finora non lo si era realizzato con chiarezza: se i ragazzi  – attori o registi che siano – che escono dalle scuole d’arte non hanno opportunità vere di cimentarsi e incrociare persone già esperte del linguaggio scenico, l’unica possibilità che resta loro è quella di formare piccole compagnie o prolungare il limbo professionale con lavoretti, fino a colpo di fortuna, senza poter mai incrociare sguardi di operatori e critici in grado di segnalarne il talento.

Negli ultimi anni, invece, quelli che erano i saggi di fine corso, stanno diventando sempre più occasioni di ragionamento complesso, arrivando in non pochi casi ad allestimenti di pregio, come l’adattamento di Uomini e no diretto da Carmelo Rifici e interpretato dai giovani della Scuola del Piccolo Teatro con un ottimo riscontro di pubblico e di critica.
In queste ultime settimane non sono poche – e ancora continuano – le proposte nate all’interno di questo circuito di possibilità, con palcoscenici importanti, come quello del Piccolo Teatro, dell’Out Off, del Franco Parenti o del Teatro Fontana, e con nomi anche di prestigio, del calibro di Wilson che ha diretto i giovani attori della Silvio d’Amico, per citare un caso eclatante.

Facciamo una carrellata di alcune date recenti, rendendo uno sguardo che incorpora l’ambizione di questi artisti di varcare la soglia del professionismo. E dunque come professionisti li osserviamo e ne parliamo, consci che ci sia l’ovvio spazio di crescita e che, dove occorre, si dovrà indicare qualche ingenuità, per dare spunti nella direzione di un possibile miglioramento.

Partiamo allora da Nuovi Incroci, rassegna di tre spettacoli ospitata dal Teatro Out Off: testi di autori contemporanei stranieri, messi in scena da tre giovani registi della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi: Valeria Fornoni, Daniele Menghini e Margherita Scalise, con la partecipazione di attori professionisti di scuola nostrana del calibro di Giovanni Franzoni, Woody Neri, Valentina Picello, Edoardo Sorgente, Alice Spisa, Francesco Villano. È stata l’occasione per presentare al pubblico milanese testi interessanti di drammaturgia contemporanea: Bedbound di Enda Walsh, Alla Luce di Marius von Mayenburg, At Home With Claude, adattamento dal testo di René Daniel Dubois. Tre testi che affrontano, ciascuno nella propria lingua, tematiche scomode in modo tutt’altro che scontato, potendo contare, durante la fase di progettazione, sulla collaborazione dei traduttori della Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli – che hanno affiancato i registi con il tutoraggio della coordinatrice del corso, ora Direttore della Altiero Spinelli, Fabrizia Parini – sul sostegno nel riadattamento allo spazio teatrale del direttore artistico del teatro Out Off e docente della scuola, Lorenzo Loris, e sulle consulenze di Hubert Westkemper per il sound-design, Daniela Bestetti per il light-design. Le scene, le luci e i costumi sono stati realizzati dai laboratori della Scuola Paolo Grassi.

Abbiamo visto Bedbound (“costretti a letto”) di Enda Walsh, un testo che, riprendendo le parole di Sabrina Sinatti che è stata tutor di Margherita Scalise alla regia, «fotografa implacabilmente la realtà più atroce dei rapporti e delle condizioni della società in cui viviamo, nobilitando i suoi personaggi attraverso la forza dei sentimenti e di quell’anelito alla vita che li fa sopravvivere agli eventi più drammatici».
31460866_173356769921189_3746350077942169600_n.jpgDue interpretazioni potenti, quelle di Woody Neri e Alice Spisa: il primo un piazzista senza scrupoli, l’uomo che “venderebbe la madre”, dentro il suo “squalesco” e squallido mondo di affari e compromessi; la seconda, sua figlia, costretta a letto da una malattia. Il confronto fra le due personalità sembra sfociare in una riflessione su come usare la libertà e su cosa significhi profondamente la costrizione.
A poco a poco pare quasi che ruoli si invertano in una regia accorta e misurata che alla fine costringe l’uomo a gettare la maschera davanti alla libertà di pensiero di una figlia che, pur costretta dalla poliomielite, arriva a dare un senso alla sua vita; una vita che appare tutta una reminiscenza, un flashback.
Il testo fu portato in scena quindici anni fa da un giovane Malosti. Questo ritorno ha i crismi del vero pugno in faccia: l’innocente coperta lunghissima che dal letto – visto in scorcio dall’alto – arriva al pubblico quasi a rassicurarlo di una fiabetta per la sera, si rivela, invece, via via sempre più corta, ora per la caustica drammaturgia, ora per una regia che affida soprattutto alla Spisa una carrellata dell’umanità dolente, della maschera della deformità umana in stile Bosch. Bella sia l’idea scenica che il disegno luci. Un bell’esordio. Speriamo possa girare.

Costretta è anche l’umanità da tugurio in cui una figura femminile pare correre in soccorso di un uomo abbandonato a se stesso e alle sue memorie dolorose in Alla luce, «un’indagine intorno ad un legame impossibile, cristallizzato in un presente eterno. Un uomo cupo e una bimba grande immersi nell’insostenibilità del quotidiano, in un contemporaneo sospeso e impalpabile, chiamati a vivere la propria fiaba morbosa lontano dal mondo», nella lettura che ne dà Daniele Menghini, affidandosi alle interpretazioni dolenti di Valentina Picello e Giovanni Franzoni.
Una casa bunker, quasi insonorizzata rispetto al mondo esterno, arsa da un incendio di cui restano tracce indelebili, Augenlicht del tedesco Marius Von Mayenburg, al quale Alla luce si ispira liberamente, ritorna sulla vicenda di cronaca di Natascha Kampusch, la ragazza austriaca che nel 1998, all’età di dieci anni, fu rapita e segregata da un uomo che la abusò per otto anni fino a quando lei non riuscì a liberarsi. img_3313
Immaginato per tre personaggi, il testo portato in scena nel 2006 alla Schaubühne di Berlino da Ingo Berk, arriva in Italia in questo adattamento nel quale la regia compone un’operazione drammaturgica di condensazione dei due personaggi femminili: la governante che arriva in casa dell’uomo e la prigioniera che esce dalla reclusione nella stanza dei misteri, cui la prima donna non può avere accesso. Forse ispirata dal sembiante attoriale di Valentina Picello, alla quale la regia cerca di dare e togliere senso di sacralità e di femminilità, di maggiore e minore età, di forza e debolezza, l’operazione drammaturgica finisce per superare il limite dell’arditezza per sfociare, purtroppo, nel poco intellegibile. Un peccato, considerando lo sforzo di mezzi scenici: belli l’espediente della casa bunker e, in contrasto, l’idea delle luci del “fuori”, del riportare alla luce, del “vederci chiaro” – come fu tradotto il titolo per la pièce del 2008 al suo debutto in Italia. Non raggiungiamo lo stesso risultato con questa riproposizione di dieci anni successiva. L’operazione resta oscura e costringe la recitazione, più che a un vibrato polifonico, a una monodia che non arriva a sbalzare i caratteri.

Dal progetto della Paolo Grassi all’Out Off passiamo a quello simile, ospitato quasi un mese dopo, dal 16 al 28 ottobre, al Piccolo – Teatro Studio Melato, proprio nella sala nata come spazio sperimentale e “palestra” per gli allievi della Scuola di Teatro del Piccolo: anche qui in scena tre spettacoli, con i giovani attori diplomati dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.
Quello in scena in questi giorni è Un ricordo d’inverno di Lorenzo Collalti, vincitore del Premio SIAE S’ILLUMINA, racconto del viaggio di un giovane artista alla ricerca dell’ispirazione; seguirà nel fine settimana prossimo Notturno di donna con ospiti, studio del giovane regista Mario Scandale sulla versione del 1982 del celebre testo di Annibale Ruccello.
Ad aprire la rassegna è stato Hamletmachine che nasce dal fortunato incontro di Heiner Müller con il regista visuale Robert Wilson, maestro delle luci e degli attori marionetta, e messo in scena per la prima volta nel 1986 alla New York University; anche in quel caso con la partecipazione degli studenti e da allora mai più ripreso. Un potpourri di tematiche figlie delle suggestioni politiche e ideologiche degli anni Settanta, che spinsero, proprio nel caldissimo ’77, lo scrittore alla scrittura dell’opera, la quale vide però la luce in scena solo un decennio dopo.

Hamletmachine+091Qui Wilson riprende proprio quell’allestimento affidandone l’interpretazione ai giovani studenti italiani.
Lo spettacolo gioca sulla rotazione del punto di vista dello spettatore, immaginandone la posizione fissa rispetto a una scena che viene letta in rotazione. Uno spazio abitato da figure simboliche, quasi apotropaiche, che affondano le radici nell’immaginario shakespeariano, come le tre streghe centrali vestite da signore americane degli anni ’50 che graffiano il tavolo di metallo con le loro unghie: davvero una visione archetipica. E così anche gli altri caratteri che cercano un’esistenza ectoplasmatica del carattere dei personaggi di Shakespeare proiettandosi nel presente di allora.
Forse l’adesso è distante e questa regia, che ha anche il sapore degli happening di quegli anni, pur avendo in sé tutte le bellezze e la cura delle regie di Wilson – compresa la sua passione per la classica e la fantastica interpretazione del lieder Der Zwerg di Schubert, affidata alla voce della Norman – ha anche la sua età.
Negli anni Wilson ha sempre più distillato i segni e le presenze sceniche, sviluppando quella funzione ritmica e di vuoti che qui viene scandita dalla percussione di bacchette di legno che fraziona le scene.  Meglio pensate le figure femminili di questa creazione. Un po’ debole l’Amleto “dark-burino”. Bella l’Ofelia tutta presenza naturale in primo piano, forse perché diversa dagli altri personaggi più tipici dell’estetica del regista, e che tal quali dopo quarant’anni finiscono quasi per sembrar maniera. Ma siamo sicuri siano state due settimane intense per questi attori, portati allo spasmo dello stare su una scena dove persino il movimento dell’unghia conta. Meglio abituarsi da subito a non essere sciatti.

Chiudiamo la carrellata con due visioni di spettacoli affidati nella regia a giovani interessanti registi.

Il primo lavoro è il Tu sei Agatha, nato anche questo come esito della Paolo Grassi e ora prodotto dal Teatro Franco Parenti: adattamento teatrale dell’autobiografia di Marguerite Duras, nella quale si racconta anche del suo amore per il fratello Paulo, figura dall’identità di genere ambigua e morto giovane. Una sorta di spunto alla Moravia in cui la memoria degli incontri incorpora indolenza, erotismo, conoscenza, cristallizzata in un sorta di post mortem che il giovane regista Lorenzo Ponte (classe ’92, scuola Paolo Grassi) affonda in una serie di “luci di inverno” fredde, siderali, incomunicabili. I due fratelli trentenni – Valentina Picello e Christian La Rosa – cercano la «dolcezza accasciata, innata», che il testo richiede, di un amore disperato e impossibile tra fratello e sorella scambiato nella villa d’infanzia. img_3315Nudi, in un’innocenza di cui lo spettatore arriva a cercare quasi memoria olfattiva, in un allestimento di tonalità buie, appena accennate nello stupendo disegno luci – ben utilizzato dalla regia – di Giuliano Almerighi,  i corpi si muovono in un gioco di posture l’intensità del quale supera quella che ci arriva dalla parola. Ponte arriva, probabilmente senza volerlo, quasi a farle perdere importanza, in uno scambio di sussurri che dovrebbe aprirci la porta sull’inconscio, richiamato da una scena quasi metafisica, in stile De Chirico, convincente pensiero di Davide Signorini. Viene fissata una supremazia dello sguardo sull’udito, dello stare attoriale sul dire. Ma, mentre la fissità del primo elemento crea un vibrante spazio poetico, originalissimo e di grande interesse, l’operazione “statica” riesce meno convincente sulla prosa, già di suo non nata per il teatro, e che forse aveva bisogno anche di altre chiavi per vibrare nel flebile. La Picello qui un po’ troppo spinta su corde emotive.

Chiudiamo con Non un’opera buona, quarto spettacolo di I.T.A.C.A. – acronimo di Il Teatro A Comunicazione Avanzata – rassegna dedicata alle nuove drammaturgie che sta occupando, con la sua terza edizione, il palcoscenico del Teatro Fontana di Milano. In scena cinque compagnie con testi originali e di grande attualità. Anche I.T.A.C.A. intende favorire l’incontro tra giovani artisti e la città, creando occasione di sviluppo e comunicazione a gruppi teatrali nelle prime fasi della loro vita artistica.

43548825_1951731201547526_2440004606286102528_n.jpgNon un’opera buona, testo e regia di Michele Segreto (bresciano, classe ’89) e produzione de Il ServoMuto Teatro, è una pièce sulla figura di Martin Lutero, con un testo risultato vincitore di Teatri del Sacro 2017.
Nel cinquecentenario dall’affissione delle 95 tesi al portone della Chiesa di Wittenberg, la figura dell’uomo Martin Lutero rimane ancora stretta fra lo stigma dell’eretico e quella del saggio, il leader filosofo ma anche il vizioso; frate dai saldi principi e uomo incapace di controllarsi. Persino la sua eredità in qualche modo politica resta controversa, come il testo arriva a raccontare, stretta fra realpolitik e desiderio di ribellione.
La regia di Segreto, e prima ancora il testo, giocano su questi temi, sull’incoerenza e la debolezza umana, un’incoerenza che è anche postulato scenico, finzione di attori di un tempo d’oggi che giocano al gioco del personaggio, all’equivoco, all’essere e non essere: una continuità scenica spinta, nella quale il dialogo fra “l’ora e l’allora” è nella recita di questi personaggi in cerca d’autore, di fronte al copione videoproiettato alle loro spalle. Piccoli personaggi del teatro, grandi personaggi della storia. Sembrano quasi miniature umane; una bella idea del regista che con la compagnia ha inanellato ormai diverse regie, confermando uno sguardo appuntito, che sta maturando con stage di alta formazione, come quello presso ERT e Biennale Teatro. Un organizzatore rigoroso dello spazio scenico e del lavoro sugli attori, che inizia a confezionare prodotti non banali, non pasticciati e che anche in questo caso porta i quattro interpreti – Sara Drago, Marco Rizzo, Michele Mariniello e Roberto Marinelli – a un’interessante amalgama. Forse un po’ spinto, in questa pièce, il confronto ideologico – anche nel suo tono pop – proposto attraverso le videoproiezioni, ma in fondo il succo dello spettacolo non è in questo, bensì proprio nel tentativo di raccontare la debolezza dell’Uomo, le sue contraddizioni, al cospetto della Storia. E la cosa riesce.

 

BEDBOUND
di Enda Walsh
Regia – Margherita Scalise
Tutor – Sabrina Sinatti
con Woody Neri e Alice Spisa

ALLA LUCE
di Marius von Mayenburg
traduzione di Clelia Notarbartolo
drammaturgia e regia Daniele Menghini
tutor Sofia Pelczer
con Giovanni Franzoni e Valentina Picello
consulenza traduzione: Stefania Ceraolo, Chiara Bonaiti, Ilaria Antonini
con la collaborazione della Civica Scuola Interpreti e traduttori Altiero Spinelli
consulenza drammaturgia: Manfredi Messana
scene: Davide Signorini con Pio Manzotti, Mattia Franco, Alice Capoani
costumi: Enza Bianchini e Giuseppe Giordano con Nunzia Lazzaro
sound design: Hubert Westkemper
light design: Daniela Bestetti con Paolo Latini, Simona Ornaghi
foto: Luca Del Pia
grafica: Rebecca Coltorti

HAMLETMACHINE
testi di Heiner Müller, ideazione, regia, scene e luci Robert Wilson
co-regia Ann-Christin Rommen
con Giovanni Firpo
drammaturgia originale Wolfgang Wiens
collaboratore alle luci John Torres, collaboratore alle scene Marie de Testa
musiche Jerry Leiber, Mike Stoller, costumi Micol Notarianni
dai disegni originali di William Ivey Long, make-up & hair Manu Halligan
con i performers di Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” Liliana Bottone, Grazia Capraro, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Francesco Cotroneo, Angelo Galdi, Alice Generali, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno,
Camilla Tagliaferri, Luca Vassos, Barbara Venturato
nuova versione basata sulla produzione originale del 7 maggio1986 alla New York University
progetto di Change Performing Arts
commissionato da Spoleto Festival dei 2Mondi
per Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”
Si ringrazia RW Work ltd New York, www.robertwilson.com
I diritti dell’opera HAMLETMASCHINE di Heiner Müller sono concessi da Zachar International, Milano,
su licenza di henschel SCHAUSPIEL, Berlino

TU SEI AGATHA
da Agatha di Marguerite Duras
adattamento e regia Lorenzo Ponte
con Christian La Rosa e Valentina Picello
scena Davide Signorini
musica Sebastiano Bronzato
luci Giuliano Almerighi
produzione Teatro Franco Parenti
Si ringraziano Sabrina Sinatti, tutor del progetto – Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi – e Lab121.
Si ringrazia per la collaborazione VIE dei festival – Roma.

NON UN’OPERA BUONA
Il ServoMuto Teatro
drammaturgia e regia
Michele Segreto
con
Sara Drago, Marco Rizzo, Michele Mariniello, Roberto Marinelli
CON IL SOSTEGNO DI FEDERGAT
TESTO VINCITORE TEATRI DEL SACRO 2017