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foto di scena Salvatore Pastore

RENZO FRANCABANDERA ed ESTER FORMATO | RF: Rileggere la storia a teatro. Mescolare una drammaturgia su vicende antiche a una contemporaneità che cerca di sprofondare nella parola del Bardo; ma anche restare in qualche modo a galla, fino a ricorrere a spunti da serial televisivo, collegando le vicende storico-dinastiche di quattro opere di William Shakespeare. Un compito non facile al quale si sono dedicati Paolo Mazzarelli, Lino Musella e un gruppo di interessanti attori della scena italiana con la “serie” Who is the King – otto drammi shakespeariani (Riccardo II, Enrico IV parte I e II, Enrico V, Enrico VI parte I, II, III e Riccardo III) trasposti in quattro grandi rappresentazioni.

EF: Riccardo II, Enrico IV, Enrico V ed Enrico VI sono le campali figure che riemergono in tutta la loro conflittualità nei drammi storici di William Shakespeare. Le lotte di potere fra York e Lancaster condotte fra XIV e XV secolo in Inghilterra hanno interessato alacremente la penna shakespeariana, che affonda in quelle sanguinose battaglie tutta la sua lingua barocca, quella pregnante, altamente figurativa, che già solo leggendola sembra realmente impastata con polvere e sangue. Benché la storia d’Inghilterra prima di Elisabetta I sia, ai più, lontana e sconosciuta, è un dato di fatto che Riccardo o Enrico declinano le loro vicende nelle varie complessità e conflittualità presenti nella storia di ogni tempo, pur mancando di quello slancio emotivo che fa prediligere Amleto, Macbeth o Romeo e Giulietta.

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RF: Sono sicuramente opere  meno frequentate: parliamo della primissima parte della produzione shakespeariana, quella dell’ultimo quindicennio del Cinquecento. Una produzione che soffre, in generale, dell’essere marcatamente incentrata sul dramma storico costringendo le figure a uno sbalzo meno profondo rispetto alle opere seicentesche, dove la scrittura, invece, si astrae dalla vicenda storica per arrivare all’archetipo; un passaggio che in quei lavori non si dà e che in parte la regia di Musella e Mazzarelli cerca in qualche modo di ricavare, affidandosi anche ad un cast di sicuro interesse.

EF: La vasta co-produzione Franco Parenti con Marche Teatro e La Pirandelliana si impreziosisce del talento attoriale degli interpreti che abbiamo spesso conosciuto attraverso una sensibilità a un linguaggio teatrale non banale come quello proprio della regia di Musella e Mazzarelli; ma il risultato pare abbastanza dissimile da quello delle drammaturgie originali. Quel che rimbalza subito agli occhi di Who is the king è senza dubbio l’eleganza geometrica della scena nella quale predominano pochi e grandi ornamenti, in prevalenza rossi e neri. Una pulizia spaziale che accoglie, d’altra parte, la lingua e le parole shakespeariane riprese fedelmente senza alcuna rielaborazione linguistica; anzi, colte nella loro tipica cifra espressionistica e bivalente con  l’inconfondibile natura farsesca che affonda tutta nella tragedia. Tragedia-farsa è una delle componenti di Shakespeare, dicotomia unica e irripetibile  che emerge poderosa dai testi originali le cui parti monologanti, dotate di liricità e di alta conflittualità, costituiscono quello dello spettacolo.

RF: L’ambientazione è da teatro nel teatro, come un drappo rosso vuole comunicarci, passando per la rottura della quarta parete con l’arrivo in sala del personaggio di Falstaff. La sortita sposta il punto di visione in una sorta di backstage dell’umanità che segna anche un cambio di registro, passando, appunto, dalla tragedia – quella a cui il teatro più solennemente si dedica in modo caravaggesco, con quinte porpora e luci siderali – a una realtà caotica e contemporanea, fatta di personaggi pop. È qui che, dicevamo, entra in scena Lino Musella nei panni di Sir John Falstaff  – ad alludergli chiaramente la maglietta con la scritta FALSE / TRUE sul davanti/dietro. Un personaggio che in Shakespeare appare nelle due parti di Enrico IV (ma anche ne Le allegre comari di Windsor), per poi essere nominato in Enrico V  come un carattere, per certi versi, quasi da commedia dell’arte, un cavaliere grasso e vanaglorioso – si dice, ispirato al drammaturgo dalla figura di Sir John Oldcastle, militare che guidò le milizie inglesi durante una fase della Guerra dei Cent’anni e che fu ucciso proprio sotto il regno di Enrico V. Qui Falstaff è, piuttosto, un uomo tenero interprete di vizi, contrapposto all’algida dimensione dell’esercizio del potere che si esercita in pubblico. Proprio quel backstage ne vuole rivelare le miserie, le piccolezze, dove persino figure come quella di Falstaff finiscono per giganteggiare per umanità.

EF: L’ossessione del potere e tutto il male che ne deriva scalfiscono le complesse coscienze dei protagonisti che si affacciano da un passato torbido che i due registi non esitano a ricalcare con l’assetto scenografico. D’altra parte le suggestioni visive rischiano di non abbracciare tutta la necessaria riflessione sui temi in grado di restituirci un lavoro drammaturgico più consapevole. Infatti, nel corso delle tre ore circa di spettacolo, tali temi sembrano essere tralasciati a vantaggio di un’ostinata ricerca della teatralità che si incarna nei personaggi. Il ruolo di re cui Riccardo II allude quasi come condanna – «a volte sono re» – apre a prospettive che, nel tentativo di risultare ampie, si perdono poi in una forma incoerente.

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Ad esempio l’idea del backstage, l’idea di un Falstaff che sembra fare da snodo in una doppia dimensione narrativa le cui parti s’intersecano non senza fatica; ancora, lo sfaldamento progressivo della tragedia shakespeariana non approdano – almeno in questa fase del lavoro – a una ricerca organica, a una soluzione di sostanza. Falstaff resta un personaggio polivalente che assume su di sé un ulteriore segno teatrale, travalicando la dimensione della storia e sostando come a metà fra il dentro e il fuori la vera narrazione. Ma perché una cesura così forte fra prima e seconda parte? E se si sposa il concetto dei prodotti seriali contemporanei di finale aperto – quanto di più lontano dalla drammaturgia classica – per approdare a una sorta di esperimento, perché non agire con profondità sui testi riadeguandone il linguaggio agli ingranaggi postmoderni di quel che noi comunemente chiamiamo fiction?

RF: Restano alcuni momenti di grande robustezza scenica, come il dialogo padre-figlio incarnato qui in senso biologico dal duo composto da Massimo e Marco Foschi, una possibilità rara che il teatro regala e che non tradisce: un confronto su colpe e affanni dell’autodeterminazione delle generazioni successive, il peso dell’eredità, la paura di sbagliare. È il ritorno, complesso in queste prime opere, ai grandi temi che però non arrivano con la stessa poesia dei grandi classici successivi: forse, sbalzati e posti ancor più in evidenza in un’operazione di riscrittura, avrebbero “reso” di più rispetto a una carrellata storica senz’altro a suo modo meritoria, ma la cui necessità, confrontata con la supremazia dei grandi momenti teatrali, resta decisamente meno incisiva.
Alla fine la costruzione vive della costrizione a tener dentro consequenzialità di segni e rimandi consapevoli e interpretativi all’opera del Bardo. Un tentativo senz’altro complesso, generoso, ma non del tutto riuscito.

 

WHO IS THE KING

un progetto di Lino Musella, Andrea Baracco, Paolo Mazzarelli
drammaturgia e regia Lino Musella, Paolo Mazzarelli
luci Pietro Sperduti
scene Paola Castrignanò
sound design e musiche originali Luca Canciello
costumi Marta Genovese

con
Massimo Foschi, Marco Foschi, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Josafat Vagni, Laura Graziosi, Giulia Salvarani, Paolo Mazzarelli, Lino Musella

produzione Teatro Franco Parenti, La Pirandelliana, MARCHE TEATRO