ELENA SCOLARI e RENZO FRANCABANDERA | ES: Alcune settimane fa riflettevo sulla scarsità di omicidi in scena, nella drammaturgia contemporanea si uccide poco. Si parla molto della morte, ma raramente la si vede sul palco, poche morti naturali ma anche pochi ammazzamenti a vista.
L’ho ripensato vedendo L’indifferenza di Pablo Solari, in scena in questi giorni al Teatro i di Milano perché qui un’uccisione c’è, forse non svelerò di chi per non fare spoiler, come si dice oggi. Ieri gli spoiler erano gli alettoni posteriori delle automobili. Che stranezza.
RF: Una morte in stile Hollywood Party, come pensavo ieri, con il surreale personaggio della vedetta, con la trombetta stonata, che nonostante le mille fucilate non muore mai! Ma comunque diciamo che sì, siamo in un tempo di teatro buonista, che vuole un po’ fare la morale, ma sta venendo su una nuova generazione di drammaturghi inquieti, interessati a raccontare l’angoscia del nero dietro la parvenza. Penso ad Homicide house di Aldrovandi, per dire. Certo, inquieta pure vedere che nelle messe in scena di tutte queste drammaturgie criminali c’è sempre di mezzo Valeria Perdonò. Questa ragazza ci nasconde qualcosa…
ES: Una parete sul fondo separa la cucina di una casa dall’esterno, un uomo, Franco – Luca Mammoli – legge il giornale al tavolo. Senza che se ne accorga un altro uomo – Woody Neri – gli sguscia in casa, vestito in abito di lino bianco e cappello panama (ricorda l’uomo del Monte, impossibile non pensarci), si siede al tavolo con una valigetta 24 ore e i due intavolano una bizzarra conversazione dalla quale emerge che l’uomo di lino sa qualcosa della vita dell’altro, della sua vita passata ma – più curiosamente – anche di quella futura.
Estrae una foto e veniamo a sapere che Franco è stato un soldato, nel deserto (Iraq? Afghanistan? Kuwait?) e che si è macchiato di un crimine violento e definitivo contro una giovane donna. Lo sconosciuto riesuma il fatto, non ne è ben chiaro il motivo, e nel contempo annuncia, quasi fosse un angelo che porta la lieta novella, che la moglie dell’ex soldato potrebbe essere incinta.
La donna, una decisa e convincente Valeria Perdonò, fa la guida in un museo – lavoro che sembra avere un’accezione di vacuità rispetto alle cose che contano nel mondo – ed effettivamente aspetta un bambino, l’indovino ci ha preso. Da qui si dipana una matassa fatta di dinamiche di coppia, di rivelazioni e confessioni – gravi e meno gravi –, di arrabbiature e perdoni, debolezze e consolazioni, tutto sotto l’occhio dell’uomo/deus ex machina dall’origine misteriosa. Una presenza tanto inspiegabile da risultare essere una visione, una proiezione dovuta allo stato allucinatorio (sindrome post traumatica?) del marito. Già, ma lo vede anche la moglie, allora l’uomo di lino è doppiamente simbolico; è per lei il personaggio di un sogno? Probabilmente rappresenta le colpe di entrambi, le ombre che oscurano la vita, i propri fantasmi, sì.
Ed entrambi hanno bisogno di eliminarlo, di distruggerlo per andare avanti, perché è venuto per una specie di vendetta ma alla fine otterrà l’effetto contrario, tornando a una funzione angelica.
Franco/Luca Mammoli è poco credibile come recluta in un golfo militare dell’orrore, il fatto che abbia ucciso perché al fronte è normale farlo è detto quasi en passant, senza troppe conseguenze; un male meno circostanziato avrebbe avuto significato più universale.
RF: Ho assistito a replica con “incontro artisti a seguire” in cui il regista spiega come l’idea sia nata dopo l’attentato al Bataclan, l’idea che possa arrivare qualcosa o qualcuno all’improvviso a sovvertire la verità data, la tranquillità del normale fluire. Qualcosa che arrivi a farci sentire la pelle bruciare.
Diciamo che più che Mammoli – che a me è molto piaciuto e il cui recitato cresce con lo spettacolo – è il suo personaggio a sembrare un minimo artefatto. Ma c’è anche da dire che ci sono momenti poi della drammaturgia in cui il dialogo è serratissimo, e che questo principio di verosimiglianza o credibilità viene superato in nome di una intensità emotiva capace comunque di prendersi la scena, e lo fa proprio grazie all’ abilità dei tre interpreti di passare da una vicenda incredibile e assurda ad una concreta, effettiva, in cui ti senti che ti balla la sedia sotto il culo. È tutto falso, sì, vabbè, però intanto il fremito ti arriva. E arriva attraversando potentemente il corpo degli attori, chiamati a interrogarsi e interrogarci su un loro oscuro, profondo, che sia di puntello a tre personaggi che ci spingono dentro un’indagine nera.
ES: Il fatto è che nella prima parte dello spettacolo pare di essere di fronte a un testo coraggioso, perfino un poco scorretto, che mette in scena un personaggio negativo, che ha nascosto le nefandezze compiute in guerra – una guerra di occidentali conquistatori, tra l’altro – e che si trova a doverle affrontare suo malgrado davanti alla persona che ama, la quale, a sorpresa, sta per renderlo padre. È un bel groviglio che permetterebbe di affondare parecchio nel torbido. Woody Neri è concentrato, preciso, evanescente nel dire cose inaspettate e allarmante per come si insinua nel ménage.
Invece la bella scrittura di Solari fa poi un passo indietro, sembra voler correggere la cattiveria ruvida con una spugna morbida e molto corretta: un bambino risanatore in arrivo, gli accidenti superati, la coppia riunita… Le due persone, singolarmente, non riescono ad annientare il corpo estraneo ma quando vi si avventano contro insieme invece ce la fanno: l’amore vince su tutto, quindi.
RF: Faccio il “so tutto” avendo partecipato al famoso incontro, ma qui anche per darti ragione. Il testo si è formato per blocchi, per parti aggiunte, suggestioni che hanno anche molto pescato nel cinematografico. È indubbio, e tu stessa lo cogli, che qualche salto nella scrittura ci sia, nonostante l’impegno probabilmente profuso per una riscrittura di scena, fatta nelle prove, capace di levigare. Però, e qui parlo senza suggeritore, riguardo al finale, non so se il duo ricomposto dei coniugi sia proprio la rappresentazione dell’amore; forse più di un egoismo da vincolo familistico, dove proprio l’origine del termine famiglia incorpora in sé quello di servitù. Una volta che sei dentro, la possibilità che un fattore deflagrante arrivi a scalfire è identica, ma la probabilità che scalfisca è minore, non fosse altro che per supremazia numerica.
La tua lettura è comunque legittima, anche se, di buonismo, non arrivo in fondo in fondo a vederne: i due, che tagliano la simbolicamente biblica mela con l’arma del delitto, mi sanno più di Natural Born Killers che di Al Bano e Romina.
Sento invece, come te, qualche salto ma devo dire che è finanche naturale in una scrittura giovane come quella di Solari, che sta crescendo bene e sfruttando le opportunità di formazione che via via la vita gli offre per interrogarsi e migliorarsi in forma molto aperta. Ne L’indifferenza, rispetto alle regie precedenti, il lavoro sugli attori arriva ad una profondità nuova, ferina, che il testo certo permette. Ma è uno spazio, anche di parola, che si è creato lui stesso. Quindi mi sento di volergliene dare merito. E quindi, tornando a noi, nella tua lettura dell’amore che trionfa, l’indifferenza del titolo quale è?
ES – L’indifferenza è quella che ha preservato la vita dei coniugi – nella menzogna occultatrice – fino all’arrivo di un manipolatore apparentemente diabolico ma che lavora invece per salvare la coppia, una punizione purificatrice, dunque. Alla fine il male è liquidato, anche abbastanza rapidamente, lasciando solo una traccia che ricadrà nell’indifferenza. È come se non si accettasse di lasciare le cose irrisolte, come spesso invece succede nella vita: male e bene coesistono, in ogni individuo, e non sempre uno vince sull’altro.
RF- …e non invece, che i due coniugi, complici nell’assassinio, accolgono l’un l’altro il nero di ciascuno, accettando con finale indifferenza proprio l’irrisolto di cui ogni individuo è portatore, quale che ne sia la gravità? Una sorta di auto assoluzione in nome, sì, di una coppia, della creatura, ok; ma, in fondo, anche in nome del cacciar via lo spunto della cruda verità lacerante, rappresentata da questo bianco Angelo della vendetta, in nome di una paradossalmente più gestibile accettazione dell’oscuro? In questo caso a trionfare sarebbe il grande assente: l’Angelo nero, the Eagle of death metal, che abita nei protagonisti senza aver voce in scena.
ES: Sì, è una lettura interessante, questa, ma resto dell’idea che i due “oscuri” siano talmente imparagonabili – un paio di corna vs uno stupro completo di assassinio – da rendere scricchiolante la teoria della reciproca accettazione. L’Angelo in Bianco col suo panama rimane sullo sfondo, sì, chissà che non torni, più diabolico, la prossima volta.
RF: Ps: fighe le luci di Fabio Bozzetta, come pure scene e costumi della Maddalena Oriani, che sono già un paio di volte che mi stuzzica l’occhio con le sue pensate. Cerco di saperne di più. Ma magari scopro che è come la Perdonó, dentro ‘ste storie di omicidi teatrali, e poi finisco fatto a pezzetti in qualche raviolo cinese nel loro prossimo spettacolo!!
L’INDIFFERENZA
con Luca Mammoli, Woody Neri, Valeria Perdonò
scenografia e costumi Maddalena Oriani
sound design Alessandro Levrero
light design Fabio Bozzetta
coproduzione Teatro i / Centro Teatrale MaMiMò
21 ottobre 2018