RENZO FRANCABANDERA | In una pagina di un social media è impossibile rilasciare un messaggio vuoto. Occorre dire qualcosa. Riempire. La funzione riempitiva e saturante è alla base del consumo di intrattenimento – ma anche di arte – del nostro tempo. Aveva avuto modo di illustrarlo chiaramente, in una serie di suoi studi della seconda metà del decennio passato, Gillo Dorfles, ben prima che i social media invadessero le nostre vite, e che il poco tempo residuo rispetto a quello buttato via scorrendo col dito la bacheca di Facebook, Instagram, Pinterest, Whatsapp, fosse occupato interamente dalla visione ininterrotta di serie televisive.
La rivoluzione è ovviamente nel fatto che, mentre prima l’orario di programmazione scandiva i tempi della fruizione, adesso la possibilità di vedere qualunque cosa in qualunque momento, la cosiddetta emissione continua, porta tutti ad una saturazione sensoriale mai vissuta prima dall’uomo. Ecco dunque la necessità di iniziare a maturare un sentimento di horror pleni, la necessità di un intervallo, di una pausa di fruizione. In tempi di educazione dello spettatore e di educazione allo sguardo, questa funzione troppo spesso trascurata andrebbe rimessa al centro dell’attenzione di critici e semiotici.
Fra le varie iniziative dedicate in Italia a questo, si segnala per caparbietà e sguardo aperto il Festival dello Spettatore, giunto quest’anno alla terza edizione (Arezzo 3-7 ottobre), ideato e promosso dalla Rete Teatrale Aretina intorno all’esperienza di Spettatori Erranti, con un programma ricco di appuntamenti, convegni, seminari, workshop, spettacoli, e giornate di studio; il tutto alternato a visioni artistiche, fra cinema e teatro. Insomma teoria e pratica della fruizione.
Ma come sta cambiando la fruizione dell’arte oggi? A ben guardare sembriamo immersi in un flusso ininterrotto di stimoli sensoriali, come rilevava appunto Dorfles nel suo celebre e profetico saggio L’intervallo perduto. I riti e le scansioni del tempo, dalla società agricolo-pastorale fino a quella industriale, sono stati alla base del tessuto sociale e dell’iter pausa-lavoro-vita. Dalla religione fino alla sirena nelle fabbriche il segno di interpunzione che segnava la fine di un tempo del vissuto ha sempre avuto una sua dignità simbolica che invece l’era digitale sta perdendo del tutto.
Questa assenza dell’intervallo ovviamente ha iniziato a manifestarsi prima dei computer, con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, in special modo quelli video. In campo artistico ha dato luogo a fenomeni negativi e positivi insieme: sono sorte forme che in un certo qual modo ragionavano sull’assenza dell’intervallo quali l’arte informale, la musica dodecafonica, il monologo joyciano, mentre altre forme creative mirano al recupero dell’intervallo, come certa musica postweberniana, e anche alcune forme d’arte visiva o teatrale, fino ai monocromi. Ecco dunque che per un profondo equilibrio, oltre alla serialità compulsiva, occorrerà sempre più spesso forzarsi alla disintossicazione da stimoli: il segreto dello spettatore del futuro sarà quello di regalarsi certamente molte visioni, ma altrettanti rigeneranti intervalli, spazi di tempo da non riempire.
E sorvolando sugli interventi che hanno impegnato la giornata di studi di giovedì 4 ottobre (probabile vengano presto fuori gli atti del convegno), arriviamo a sera con una artista che tramite uno spettacolo esemplifica in maniera palese il tema della pausa, della lentezza, il suo ruolo drammatico, quasi inaccettabile oggi. Un tema posto al centro di un lavoro a suo modo surreale: Gentle Unicorn di e con Chiara Bersani.
La Bersani è una donna dalla mobilità complessa, costretta nella quotidianità all’uso della sedia a rotelle. La troviamo qui a inizio pièce carponi, in tutina bianca, a iniziare una lenta, lentissima, estenuante “cavalcata” del piccolo unicorno gentile da lei simbolicamente interpretato. Una sorta di giro di pista, su tappeto danza e sfondo bianco. Lei pure bianca. Salvo un paio di “imbizzarrimenti” dell’unicorno (appunto organici all’idea di intervallo, scandito da interruzioni) la camminata a quattro zampe – per rimanere nella metafora equina – continua fino a portarla, dopo quasi mezz’ora di cavalcatina al piccolissimo trotto, a fondo sala.
Lo spettacolo in questo tempo, come ovvio, ora attrae, ora respinge. Ci costringe all’innaturalezza della fruizione lenta e al nulla di parole. Un tenue sonoro jazz che smette pure. Niente. Inchiodati al vuoto. Al tono su tono.
Si attende qualcosa che non avviene, come nelle celebri opere dedicate al nulla. I bianchi di Manzoni, i concerti silenziosi di Cage. Ma, rispetto alle versioni dello spettacolo proposte nei festival estivi, fino a quella di B-Motion a Bassano, qui ad Arezzo la Bersani aggiunge un elemento a suo modo teatral-concettuale, con l’unicorno che a fondo sala, invece di sparire al nostro sguardo, trova una tromba e prova a trarne un suono: di colpo, alle spalle degli spettatori, altri strumenti, prima alla rinfusa e poi in una sorta di progressiva armonizzazione, iniziano un dialogo. Un dialogo al principio a distanza e poi via via ravvicinato.
Rispondono al richiamo dell’unicorno gentile? Di cosa è fatta la comunicazione oggi? A quali richiami rispondiamo? Siamo disposti ad aspettare con pazienza i giri di pista degli unicorni gentili, alle loro volontarie o coatte lentezze? O finanche dietro le intelligenze apparentemente più tolleranti si annida lo sbuffo della noia, l’impazienza che accompagna la mano tremante del vecchietto che cerca un foglio in tasca, in fila prima di noi alla posta? Siamo continuamente spettatori. Osserviamo e cerchiamo ragione del nostro essere. Ora armonizzando, ora rifuggendo gli altri, ora riuscendo – sempre meno – ad accettare il gesto paziente altrui, ora invece cercando la voracità della fretta. Certo, il finale poetico e a suo modo commovente della Bersani, nel quale i musicisti lasciano i loro posti, si “scomodano” per andare attorno a lei a suonare, sa più di utopia che di realtà, ma è di certo un aggancio feroce ai temi del festival e dell’uomo che, sempre più bionico, sempre più di corsa, brucia il suo tempo al ritmo indiavolato dei processori e non si gode più nulla. Non osserva. Guarda distratto e annoiato.
Il nostro sguardo bulimico, il nostro sguardo impaziente, il nostro sguardo frettoloso.
La Bersani invece ci costringe a conoscere il suo corpo, a esplorarla, a fermarci su di lei.
La Bersani ci costringe.
A fermarci.
Pausa.
GENTLE UNICORN
prova aperta al termine della residenza
Ideazione, Creazione e Azione Chiara Bersani
Musiche Francesca De Isabella
Luce Valeria Foti
Direttore Tecnico Paolo Tizianel
Consulenza Drammaturgica Luca Poncetta, Gaia Clotilde Chernetich
Coach Marta Ciappina
Mentoring Alessandro Sciarroni
produzione Associazione Culturale Corpoceleste_C.C.00#
co-produzione Santarcangelo Festival, CSC
creazione realizzata presso le residenze artistiche Centrale FIES (Dro, Trento), Graner (Barcellona), Carrozzerie | N.o.T. (Roma), Con il Sostegno di Kilowatt Festival e Bando Siae Sillumina 2018.