LAURA NOVELLI |Si chiamava Falso Movimento (in omaggio al film di Wim Wenders Falsche Bewegung del 1975) il gruppo di teatranti, artisti visivi, musicisti, cineasti che Mario Martone fondò a Napoli alla fine degli anni Settanta. Insieme con lui c’erano Lino Fiorito, Daniele Bigliardo, Angelo Curti, Pasquale Mari, Licia Maglietta, Tomàs Arana, Andrea Renzi, Daghi Rondanini.
Erano giovani, curiosi, culturalmente onnivori e sentivano un urgente bisogno di nuovo. D’altronde, erano cresciuti sotto le spinte eccentriche e spericolate della neoavanguardia e ne avevano fatta propria la lezione più energica: uscire dai cliché, dai codici tradizionali, dall’egemonia del testo, della parola e dell’interpretazione (il ben noto Convegno per un nuovo teatro di Ivrea è del ’67 e già l’anno precedente, sulla rivista Sipario, era comparso un manifesto sottoscritto da una ventina di intellettuali che iniziava con queste parole: «La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica»).

Quei giovani lavoravano con l’idea che il percorso – il laboratorio – fosse un irrinunciabile spazio/tempo di confronto umano e artistico, che la creazione e la ‘scrittura scenica’ (parola d’ordine di Ivrea) dovesse giocoforza essere collettiva, che la commistione dei codici espressivi fosse una strada ‘esteticamente’ obbligata e che si potesse fare un teatro politico – sociale – rivoluzionandone innanzitutto il linguaggio. Come altre realtà più o meno coeve, Falso Movimento puntò innanzitutto ad un teatro di immagine. A composizioni stratificate dove l’impianto visivo inglobava la presenza viva di attori/performer/danzatori (tra l’altro ‘autori’ di se stessi), chiamati a evocare una presenza in bilico tra esposizione di sé e ruolo, bidimensionalità della visione globale e palpabilità tridimensionale di corpi emozionali vivi. La parola era bandita o robustamente ridotta. A dimostrazione del fatto che di solitudine e felicità, di contentezza e distruzione – gli ossimori che da sempre ci sospingono nella vita – si può parlare anche senza parole.

Tango-glaciale-posterSono questi d’altra parte i temi principali di Tango glaciale, lo spettacolo manifesto della compagnia partenopea (regia di Martone, interpreti Licia Maglietta, Tomàs Arana e Andrea Renzi) che debuttò nel 1982 al Teatro Nuovo di Napoli e che venne presentato alla Biennale di Venezia dello stesso anno. Un fluire ininterrotto di immagini, musica, coreografie, frasi dette/recitate, fumetto, citazioni cinematografiche. Energia pura. Incanalata dentro la progressiva esplorazione di un interno domestico che, dalle prime immagini esterne – tra le quali quella celebre dei fiori e delle cesoie) –, arriva al crollo finale delle pareti ormai ingrigite, chiara allusione al terremoto di Napoli del 1980, inghiottendo nel suo ventre corpi, musica, gesti, oggetti, colori, suggestioni.

Ebbene, questa stessa energia la si ritrova oggi, a distanza di trentasei anni dalla prima assoluta, nella ripresa per così dire “archeologica” del lavoro, Tango glaciale reloaded (1982-2018),  che il festival Romaeuropa 2018 ha presentato nei giorni scorsi al Teatro Vascello di Roma. Nel rimontare il lavoro, Raffaele Di Florio e Anna Redi (ai quali Martone ha affidato la regia del nuovo allestimento) hanno mantenuto pressoché tutto intatto. Identica la scenografia, identiche le musiche, identico il magnifico gioco di luci e video, identici gli oggetti di scena, i costumi, il clima anni Ottanta. L’uso della moderna tecnologia digitale ha permesso anzi una fluidità ritmica persino maggiore, ma nel complesso lo spettacolo è lo stesso di allora. Ovviamente, oltre al contesto socio-culturale in cui la pièce dell’82 si radicava, è cambiato il cast. Adesso in scena ci sono tre giovani e bravissimi attori (tutti ex-allievi della Scuola dello Stabile di Torino) che sono Giulia Odetto (Maglietta), Filippo Porro (Renzi) e Jozef Gjura (Arana), capaci di personalizzare la partitura (già personale) degli interpreti originari dandone una lettura conforme ma nuova e mettendoci una carica fisico-emotiva assolutamente fluida, naturale, fisiologica.

RELOADEDL’esito di questa ricostruzione è sorprendente. Tanto più sorprendente perché – suonerà scontato – la visionarietà profetica di questo lavoro, al contempo astratto e materico, sembra intercettare a pieno l’ibridazione dei linguaggi, l’apologia dell’immagine, l’afasia del linguaggio, l’accostamento possibile di alto e basso che oggi sempre più pervadono la nostra civiltà culturale. Motivo per cui le urgenze – direi, le necessità – innovative di quella generazione di teatranti fiorita tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta non solo erano sintomi, allora, di un’incredibile capacità di guardare al futuro ma sono, oggi, quanto mai emblematiche ed eloquenti, soprattutto per gli spettatori più giovani.

Diventa perciò importante cercare di spiegare cosa abbia significato Tango glaciale per i giovani – appunto – che lo idearono e realizzarono. Trovo le parole giuste nella bella intervista che Martone (reduce dall’aver presentato alla Festa del Cinema di Roma la versione restaurata del film L’amore molesto) ha rilasciato a Gianfranco Capitta e al pubblico in sala subito dopo una delle repliche romane della pièce. E le trovo anche in un libro del regista napoletano che lessi anni fa e che si intitola Chiaroscuri. Scritti tra cinema e teatro (a cura di Ada d’Adamo, Bompiani editore). Il capitolo La conquista della scena inizia con una pagina di diario datata 26 gennaio 1982: «Napoli Teatro Nuovo. Saranno state le tre di notte. Una lunga vigilia della prima, in programma per il giorno dopo. La prova stava per finire. Io e Pasquale (Mari, ndr) scuotemmo la testa. Era orribile, scomposto. Per noi alla consolle, era un disastro. E anche sulla scena c’erano facce poco allegre. Dopo un anno di lavoro, dopo aver creduto che fosse impossibile realizzarlo, che il suo alfabeto fosse impronunciabile, Tango glaciale era lì, diverso, estraneo, perfidamente lontano dal nostro progetto. Ultime battute, finale con la voce di Grace Jones, stop. Dal buio della sala vuota Beppe Bartolucci coperto da un grosso giaccone per il freddo applaudiva come un forsennato, da solo. E dai. Beppe, lascia perdere, c’è poco da stare allegri».

Invece faceva bene Bartolucci (critico teatrale molto sensibile e vicino a quella generazione di artisti) ad applaudire, perché quel lavoro sarebbe diventato un successo nazionale e internazionale. Un caposaldo del Nuovo Teatro Italiano. Non per niente, nelle intenzioni dei suoi artefici, era nato essenzialmente per fondare un nuovo alfabeto scenico, per conquistare la scena. «Tutti i livelli di lavoro, – scrive ancora Martone –  le connessioni, gli squilibri, il lavoro dentro e fuori il teatro, sulla comunicazione, sul vuoto, sulla perdita del centro e della mente, e sul suo perderla e trovarla, si proiettava adesso verso la scena, questa nuova scena fatta di immagine e ritmo. Si trattava di far scaturire il caldo dal freddo, l’impatto comunicativo con il pubblico dalla fredda elaborazione di linguaggi, uscendo dal tunnel dell’analisi sui mass media per adeguarli alla loro frequenza, senza vergognarsene, senza temerla. […] Tango glaciale racconta l’attraversamento di una casa da parte dei suoi tre abitanti; dal salotto alla cucina, dal tetto al giardino, dalla piscina al bagno: un’avventura domestica che si trasforma continuamente proiettandosi nel tempo e nello spazio, piombando di colpo nella Grecia antica e negli anni Quaranta della New York di Scorzese, pieni di tanghi argentini e melodie classiche. La meccanica visiva dello spettacolo è composta da un sistema di architetture di luce realizzato grazie al montaggio di filmati e diapositive, e permette allo spettacolo di svolgersi in dodici ambienti per dodici diverse scenografie, durante un’ora, alla media di un cambio di scena ogni cinque minuti. In questa griglia spaziale velocissima si svolge il lavoro degli attori. Tango è uno spettacolo che ha un’unità di luogo, un senso logico interno, vorrei dire una narrazione. Gli attori/personaggi sono tre, messi in rapporto secondo una schizofrenica geometria di sentimenti, un continuo squilibrio di coppia e solitudine. […] Da qualche parte c’è un’interpretazione, ma non so proprio da dove venga fuori […]. Il lavoro di Andrea, Licia e Tomàs parte da un’osservazione dei movimenti quotidiani e si espande come una danza, si contrae attraverso codici e stili diversissimi, usa come spazio la luce tagliata a fasci e volumi compatti. E poi c’è la musica, il muro del suono compatto, continuo, un lungo tracciato che taglia l’immagine, ora prendendola di faccia e guardandola, ora attraversandola sottilmente in diagonale. Un lavoro geometrico, composto da tasselli e tasselli di musiche diversissime: Debussy, Penguin Cafè, 007, Piazzola, Peter Gordon e infine il tango composto per lo spettacolo dai Bisca, il rap di Tomàs e molte altre cose».

unnamed-3Ho voluto soffermarmi su questa lunga citazione/testimonianza perché credo sia significativa, ieri come oggi. Sotto, scandagliandone i fondali, si ritrovano tanti echi importanti: Pina Bausch, Bob Wilson, solo per citare due grandi nomi. E non è certo un caso che, mentre assistevo al nuovo Tango glaciale del 2018, mi sia tornata in mente una performance di Sasha Waltz, Travelogue I-Twenty to Eight (ospitata proprio da Romaeuropa nel 2012), dove palpitava un interno domestico scandito nell’arco di una giornata e smantellato a furia di valzer (il valzer della vita). Qui, però, nello spettacolo di Martone, gli attori ballano il tango. Un tango malinconico. C’è più tristezza, più struggimento. Il quotidiano mescola le carte come in un gioco grottesco. L’energia che lo pervade disegna una linea di fragilità che viene fuori soprattutto nei momenti finali. E allora torniamo a quel connubio di felicità e solitudine che, scolpito soprattutto sui corpi degli interpreti, ne innerva la materia. Per renderla capace di parlare e parlarci sempre.

 

TANGO GLACIALE RELOADED

progetto, scene e regia Mario Martone
riallestimento a cura di Raffaele Di Florio e Anna Redi
elaborazioni videografiche Alessandro Papa
con Jozef Gjura, Giulia Odetto, Filippo Porro
interventi pittorici / design Lino Fiorito
ambientazioni grafiche / cartoons Daniele Bigliardo
parti cinematografiche / aiuto – regia Angelo Curti, Pasquale Mari
elaborazione della colonna sonora Daghi Rondanini
costumi Ernesto Esposito
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Fondazione Nazionale della Danza/Aterballetto
riallestimento nell’ambito del Progetto RIC.CI Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni Ottanta/Novanta (Ideazione e direzione artistica Marinella Guatterini)
in coproduzione con Fondazione Ravenna Manifestazioni
con il sostegno di Torinodanza festival | Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Amat – Associazione Marchigiana Attività Teatrali / Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee/ Fondazione Teatro Comunale di Ferrara /Teatro Pubblico

Romaeuropa Festival 2018
Teatro Vascello, 25-28 ottobre