RENZO FRANCABANDERA | Una storia che di suo sarebbe pure facile: piccolo imprenditore, piccola azienda di materie plastiche che nella ricca Lombardia degli anni ’90 cresce, diventa un capannone; l’economia va, si arriva a diverse decine di dipendenti. Poi sopraggiungono gli effetti del crollo del muro di Berlino, dell’economia globale, la crisi del 2007 e tutto viene giù. Anche una lettera dell’insegna dell’azienda. Che fallisce. Fine. Fallimento. Fail.
Ma questa è solo una parte della storia.
Poi c’è l’altra.
C’è quella della figlia e del padre. Di loro due. Delle due persone.
Delle cose che si dicono in macchina, dei viaggi che fanno, delle confessioni, delle speranze, delle illusioni, delle fantasie, vissute nella “bassa bresciana” come dall’altro lato del mondo, in Argentina, dove lui andava a coltivare il suo spirito e l’orto negli anni d’oro. Il suo rifugio, prima che tutto cadesse.
Mai come in questo caso si può dire: basato su una storia vera.
Perché qui di vero c’è tutto, tranne il teatro. O forse, a maggior ragione, il teatro, quel teatro che aiuta a separare Francesca Franzè, la figlia di questa storia vera, da Francesca il personaggio della pièce, e dall’attrice-regista-drammaturga che interpreta se stessa, in scena insieme a Michele Mariniello (nelle prime repliche il ruolo maschile era interpretato da Davide Pini Carenzi): i due entrano ed escono dal rapporto funzionale postdrammatico che hanno con la persona che sono e con il personaggio. Lui è di volta in volta l’uomo Michele, l’imprenditore, il padre.

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«Quando fallisce un’azienda, è una specie di Giudizio Universale. Porti i libri contabili in tribunale e devi fermarti. Il curatore fallimentare mette i sigilli sulle porte: non puoi più rientrare.  Non sei riuscito a far brillare quel gioiellino che avevi in testa.» E lì a guardare l’uomo che vede andare in fumo i suoi sogni ci sono gli occhi di una figlia che a sua volta si trova in quel tempo complicato della vita, fra adolescenza e post adolescenza, quando ancora esistono residui di infanzia, amici immaginari, statue parlanti, sogni che a volte  la realtà spazza via, ammutolisce.

Gli scarti di lavorazione di quella che fu l’impresa di famiglia e che ora non esiste più tornano a rivivere per creare i vividi elementi scenici di un allestimento che è risultato progetto vincitore del Premio Lidia Petroni 2017 di Residenza Idra e del Bando Fila a Teatro! 2017. In seguito è stato tra le proposte dell’edizione 2017 della rassegna Hors-House of the Rising Sun-MTM Manifatture Teatrali Milanesi presso il Teatro Litta.
Allora come oggi, di questo spettacolo convince la lucida necessità dell’uso dello strumento teatrale non per un’atto “psicanalitico”, anche se forse il movente emotivo può aver a che fare con il bisogno della regista-drammaturga-interprete di affidare alla scena una sorta di resa dei conti con una parte cruciale del suo vissuto personale. La scommessa che la Franzè vince con questo delicato e profondo scandaglio della questione umana è proprio nell’andare oltre la vicenda personale per consegnarci una creazione scenica che arriva con pienezza a chi sta da questo lato del palcoscenico. Arriva perché il tema del non riuscire è dentro ciascuno: se per i giovani il tema è cercare la propria via, quella in cui realizzare profondamente se stessi e le proprie ambizioni, per gli adulti, specie genitori, la questione non di rado è nel chiedersi quale testimone si lascia alle future generazioni, quali scelte compiamo noi per loro; ragionare su quelle che vorremmo loro compissero da soli, prendendosi il loro futuro; quelle che loro vorrebbero poter scegliere da soli, senza l’ingombrante peso di chi pretende di voler decidere anche per loro, senza esser nemmeno certo che il proprio sia un progetto di vita davvero di successo.

Iimg_3575nsomma, che pasticcio la vita: un insieme complicato di rapporti umani che sovente trova nella famiglia ragioni di fratture profondissime, di legami inscindibili, di scelte forzate.
La drammaturgia raccoglie questi stimoli molto personali e in un percorso durato quasi due anni e sostenuto dall’azione della dramaturga Letizia Buoso, ha sviluppato in modo personale, anche attraverso un sistema simbolico astratto ma leggibile, la relazione con l’universo parentale, ascrivendo alla gestualità, all’uso attento degli oggetti di scena, un valore preciso e non banale.
Gli attori si aggirano in quello che ora sembra un ring emotivo illuminato da luci al neon, ora il perimetro della fabbrica, ora il nudo palcoscenico. È proprio il sovrapporsi, dissolversi e scivolare uno nell’altro di questi tre piani, che fa di Fail un gioiellino, una creazione che utilizza del teatro strumenti accessibili, ma in modo complesso e, viceversa, rende leggibili strumenti non facilissimi della scena. E che restituisce una nudità dei sentimenti che arriva nel finale ad emozionare pubblici diversi, lasciando a ciascuno spazio per un’indagine su di sè.

 

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concept e regia Francesca Franzè
con Francesca Franzè e Michele Mariniello
dramaturgia Letizia Buoso
costumi Antonio D’Addio
disegno luci Mauro Faccioli
con il sostegno di Industria Scenica, Residenza Idra, Teatro Due Mondi, Molino Rosenkranz
Progetto vincitore dell’ottava edizione del Premio Lidia Petroni