RENZO FRANCABANDERA e ESTER FORMATO | EF: Forse, il fascino irresistibile che si avverte quando si sceglie di portare in scena un’opera come Platonov, proviene dalla possibilità di rimestare, trasformare, giocare in uno stadio ancora acerbo della scrittura di un grande autore, avendo a disposizione uno sguardo, come dire, quasi pluridimensionale e diacronico, che trova in questa ancora acerba operetta da Cechov mai rappresentata né edita,  lo stadio germinale di quei tratti che lo hanno reso poi unico.

RF: Anche in Italia, invero, ricordo pochi allestimenti anche ora che il testo è pubblicato e noto, uno di quando ero ancora agli inizi della mia attività critica, a fine decennio scorso, con la regia di Nanni Garella interpretato da Alessandro Haber. D’altronde è certamente una bella sfida visto che somiglia più a un romanzo – per lunghezza, quantità di temi, episodi e personaggi – che a una delle pur corpose commedie del maestro. Sarà in fondo questa la ragione per cui l’opera, scritta da Cechov quando era ancora studente di medicina, data per distrutta, ricomparve solo anni dopo la morte del suo autore senza che lo stesso si fosse peritato di darla alla stampa nonostante il successo. Il manoscritto fu poi ritrovato nell’archivio centrale di Mosca negli anni ’20, mancante peraltro del primo foglio, quello con il titolo, cosicché il testo, dato poi alle stampe nel 1923, prese il nome del protagonista. Ma è anche conosciuto come Commedia senza titolo. E comunque è il primo degli archetipi della frustrazione e della ribellione fine a se stessa di Cechov. Un carattere che comparirà in moltissime sue opere, per certi versi quasi in tutte. E comunque sì, mettere le mani nella frutta acerba per provare a farci qualche marmellata inaspettata è una bella sfida…

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EF: È quello che fa Il Mulino di Amleto, in coproduzione con il Festival delle Colline Torinesi; Marco Lorenzi dirige un Platonov opacizzato, quasi scomparso dai volumi di drammi cechoviani – l’omonimo protagonista è archetipo di Vanja, come Sergej è un germinale Kostja de Il Gabbiano – con l’intento di restituirgli lo smaltato luccichio delle scene più importanti del drammaturgo russo. Il regista richiama il candore degli ampi interni di Cechov, mai claustrofobici ma inevitabilmente connessi ad esterni misteriosi ed immensi delle campagne russe.

RF: Se Platonov è il primo eroe negativo cechoviano, un maestrino frustrato, ribelle ma in fin dei conti pavido, un conquistatore di paese, certo anche le figure che gli girano attorno non brillano per carattere, tanto che per buona metà dell’allestimento si assiste di fatto ad un ronzio umano, uno sciamare di anime in pena. Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca che sono coprotagonisti con Michele Sinisi della coralità attorale voluta da Lorenzi, interpretano ruoli di un tipo identitario che non passa mai nel genere umano, quello degli individui mediocri che vanno di qua e di là per come li mena il vento.

39941049_2160491630900373_1008917079442587648_nEF: E infatti all’inizio dello spettacolo i personaggi scivolano al centro della scena sulle note de Le vent nous portera dei Noir Desire, segno sonoro di quella leggiadria inconsistente  e di quella disperata gioia che le creature cechoviane scoprono in evanescenti attimi, casuali pause della loro altrettanto astratta infelicità. Da qui si diparte un coacervo di sentimenti adeguatamente sfrondati – così come i personaggi: tolta la Grekova, ridotto il ruolo di Nikolaj, reso un dj nella parte del I atto, rimaneggiato Klirill – e “reinquadrati” attraverso una videocamera che consente di proiettare sul fondo particolari ingranditi della scena, e che galleggiano in una colonna sonora che ci accompagna per tutto lo spettacolo. Quest’ultimo, d’altro canto, segue in linea di massima un ritmo accattivante, arrestandosi ad un certo punto.

RF: Il vento si placa, per dar spazio al tragico. Platonov prigioniero come Don Giovanni delle sue macchinazioni, rimane incastrato dai suoi giochi sentimentali e nel finale di Cechov finisce ammazzato. Qui la cosa va un po’ diversamente ma ne parleremo fra pochissimo.

EF: Si ha la sensazione che, mentre il primo e il secondo atto siano meglio definiti, il terzo risulti più lento e inceppato. I personaggi, naturalmente, sono i perni di questo  multifocale allestimento, contraddistinti da colori pastello, in prevalenza bianco/beige toni cromatici prediletti da Cechov, che circoscrivono movimenti con la buffa leggiadria di chi affoga lentamente in una disfatta dolorosa e afasica.

RF: Eppure di pastello ad un certo punto resta poco, perché ogni tanto la regia favorisce degli strappi emotivi e scenici importanti. Eleonora Diana, scena e tecniche video e Giorgio Tedesco, al disegno luci, creano un ambiente bipartito, con un davanti, nel quale per i primi due atti campeggia una grande tavola imbandita, e un dietro, con un separè trasparente, che divide, come spesso accade in Cechov, il luogo della moltitudine, della festa, dell’ebbrezza, da quello in cui avvengono gli incontri, le confessioni. Qui pare quasi che al pubblico venga fornita l’ulteriore pruderie della videoproiezione, come se non bastasse il guardare normale. Come se ci fosse una sorta di supersguardo da attivare. Ma in cui fondamentalmente nulla di particolare e diverso accade rispetto a quanto già visibile, se non forse un’esaltazione del morboso attraversarsi delle emozioni fra i personaggi, incapaci di vedersi poi realmente a fondo.

IMG_7729-1024x683EF: Eh si, perché quello che più colpisce da sempre di questo autore è quello di esprimere il dolore e soprattutto la relativa banalità con quel tono dimesso, quasi a perdifiato, in cui persino le urla hanno un suono sordo; e questa regia sembra apprendere dal testo tutto ciò per trasformarlo, se vogliamo, in una polifonia pur fragile alla cui natura “afasica” fa da contrappunto l’uso del microfono in alcune parti monologanti, come a dar loro robustezza, non prive di quell’ironia cechoviana che difficilmente è spiegabile a parole. Non è una questione di ridacchiare un po’ ad un certo punto dello spettacolo, è piuttosto assistere di continuo ad un aborto della tragedia trasformata in un dramma, impelagata nei meccanismi più banali della vulnerabilità umana, perciò a tratti farsesca. Come dire, questi personaggi sono uno scarto, sono assolutamente privi di quella grandezza d’animo che nel bene e nel male permetterebbe loro di essere tragici. Platonov è un insulso uomo, di quelli dei più mediocri, che non sa amare e di conseguenza neppure le sue donne possono riconoscere l’essenza vera dell’amore.

RF: La riscrittura dello stesso Lorenzi e di Lorenzo De Iacopo estrapola in fondo proprio questo aspetto di una vicenda che poi si dilunga in un impianto narrativo di cui viene sacrificata praticamente tutta la seconda parte, quella meno funzionale a questa resa “farsesca”, e anche stravolto il finale, con un escamotage scenico che giustifica la chiusura del lavoro immaginata dalla regia, ma che esalta anche una sorta di tempo astratto, una dimensione quasi danzata, tanto che c’è una partitura musicale elettronica live.

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EF: Tale dimensione non ha inizio e né può quantificarsene la relativa durata, è un tempo che possiede per Il Mulino di Amleto la scansione di un metronomo che ricade in un assetto scenico essenziale. L’attenzione agli spazi vuoti si traduce in quella tendenza a far aleggiare i caratteri del dramma, tratteggiati da una patina infantile che rende chiara tutta la loro smaniosa imperizia nei confronti della vita, come l’immaturo Sergej, così protervo nel vedere i suoi amici personaggi di un suo spettacolo.
Ma guai a parlare di metateatro! Nella regia di Lorenzi tutto ciò pare assumere un risvolto ulteriormente ludico-farsesco. Del resto in questo acerbo affresco, Cechov aveva solo inserito quella sua scissione, fra l’essere medico e scrittore, quel senso controverso di attrazione e orrore dell’inutilità del teatro insito in lui, come a rispecchiare l’attorcigliamento di valori postromantici e positivisti che caratterizzavano quei tempi.

RF: La regia pensa di fatto a un affresco umano grottesco, a suo modo in stile Bosch, e a tale scopo è funzionale una recitazione un po’ sopra le righe ma non espressionista o grottesca, essendo questa resa restituita proprio dalla coralità fuori tono a cui tutti gli attori partecipano in modo attento, creando una buona orizzontalità scenica. Diverse le suggestioni derivate e rielaborate da regie mitteleuropee recenti, che comunque vengono assemblate all’interno di un impianto che resta nel complesso efficace e a suo modo originale, mitigando il rischio di un salto nel buio.

EF: Certo, potendo vedere Platonov come opera con tante chiavi di lettura a posteriori probabilmente si poteva osare di più nelle soluzioni; come quella del finale che senza dubbio è lasciato aperto, ma che appare precipitoso rispetto al resto dello svolgimento e che forse in alcune parti si perde in lentezza, rischiando di vanificare lo smalto iniziale.

RF: Sì, diciamo che un po’ la paura della prima commissione importante ha probabilmente frenato la libera fantasia, facendo propendere per soluzioni di più consolidata struttura, in cui alla creatività endogena si è sommato un patchwork stilistico derivato da suggestioni di maggior esperienza (mi vengono in mente visioni di Ostermeier, Koršunovas, Hermanis, tutti passati negli ultimi anni nei teatri italiani, e le cui tracce estetico-concettuali iniziano a vedersi nei giovani registi) . E in fondo va bene così, è quello che è sempre successo nei linguaggi legati allo sguardo, dalla pittura alla regia. È legittimo poi per i giovani cercare il proprio stile misurando progressivamente le forze e capendo anche quale tipo di spunti ricavare da maestri contemporanei di questa arte soprattutto su allestimenti di autori complessi. Mi pare finanche miracolistico che questi meccanismi di accordatura arrivino dal presente e non dal passato e che comunque ci sia la modestia di ricercare la misura del respiro dentro il sentirsi parte di una scuola estetica “continentale”, evitando di licenziare proposte velleitarie, spesso intellettualistiche e a conti fatti deboli. In discipline complesse come la regia, io sono per garantire ai giovani il tempo dell’apprendimento sul campo, dell’educazione (fornendo comunque loro i mezzi per i primi importanti allestimenti, altrimenti non si impara).
Il tempo della maleducazione seguirà. Anzi, direi che dovrà seguire. Sarà proprio quando si riconoscerà il taglio del cordone ombelicale che arriverà la maturità.

 

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da Anton Cechov
uno spettacolo di Il mulino di Amleto
regia di Marco Lorenzi
con Michele Sinisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca
riscrittura Marco lorenzi e Lorenzo De Iacovo
regista assistente Anne Hirth
style & visual concept Eleonora Diana
disegno luci Giorgio Tedesco
costumi Monica Di Pasqua

co-produzione Elsinor Centro di produzione teatrale, festival delle Colline Torinesi – Torino creazione contemporanea / TPE teatro Piemonte Europa
con il sostegno di la Corte Ospitale – progetto residenziale 2018
in collaborazione con Viartisti per la residenza al parco culturale le Serre

Teatro Fontana – Milano
7 novembre 2018