ELENA SCOLARI | Ho pensato ai suk. Anzi: più precisamente ho pensato ad Algeri, ai mille vicoli di quella città bianca, sul mare, ai continui movimenti portuali di una città africana affacciata sul Mediterraneo. Ho pensato ai pericoli che per un turista si annidano nella casbah, dove si parla anche francese ma, quando i locali passano alla loro lingua, quel suono diventa indecifrabile per la maggior parte di noi occidentali. Ho pensato ad Algeri perché gli algerini sono molto protettivi verso gli stranieri, si preoccupano di non lasciarti andare in giro da solo, ancora memori di quella dizaine noir, i dieci anni di terrorismo trascorsi dal 1991 durante la guerra civile tra l’Armée Nationale Populaire e i gruppi islamisti.

Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali, nella messinscena di LAB121 per la regia di Claudio Autelli, è prima di tutto il racconto di una città, misteriosa, sfuggente, coacervo di enigmi e simbolo di tutto ciò che non ci spieghiamo, in un luogo che non conosciamo. È un bellissimo testo, elusivo e conturbante, che ci mette di fronte alla necessità di arrendersi davanti a certi segreti, ci dice che non possiamo capire tutto e che è giusto così, anche se ci frastorna e ci rende insicuri.

Questa “città vecchia” araba, continuamente nominata, evocata, è mostrata tramite le riprese di un plastico bianco proiettate su un telo a fondo scena. Una tecnica ultimamente piuttosto in voga e che ricorda, per esempio, le miniature della compagnia catalana Agrupaciòn Señor Serrano. In questo caso serve ad aumentare lo smarrimento, nostro e dei protagonisti, ma usarla anche per primi piani ravvicinati di facce e occhi e nasi degli attori è, a mio avviso, superfluo e già un po’ abusato.

La città vecchia è un luogo con qualcosa di arcano. Qui un europeo (Michele Di Giacomo) incontra una donna araba (Alice Conti), la segue mentre passeggia con alcune amiche verso la spiaggia e la ritrae mentre guarda il mare. Poi la reincontrerà – non proprio per caso – e le regalerà il ritratto. Comincerà una strana storia di inseguimenti, di diffidenze, una corte che fa un passo avanti e due indietro.
Anche il mestiere dell’europeo è un po’ un mistero, porta sempre con sé un quaderno con la copertina di cuoio e fa molti disegni. In città tutti lo hanno visto. La donna dapprima mantiene le distanze ma finirà per credere alla promessa dell’uomo di volerla portare a visitare il suo Paese, un giorno.
Naturalmente lui ritratterà, col passare della fascinazione.

Lo sviluppo del rapporto tra i due passa dalla mediazione del fratello minore di lei, interpretato da Noemi Bresciani. Il suo personaggio è quasi un oracolo, enuncia frasi brevi, asciutte; con voce fresca ma tono allarmante mette in guardia l’europeo dall’inoltrarsi nella città vecchia di notte, da solo. Lui non vede ma è visto, tutti sanno chi è lo straniero, e non si fidano di lui. Un monologo che risulta più angoscioso proprio per il contrasto tra il timbro di voce fanciullesco e la sfumatura oscura che N. Bresciani sa dare al suo monito.

La regia fa una scelta precisa e significativa: i due protagonisti non si avvicinano mai l’uno all’altra, li vediamo quasi sempre di profilo, spesso in silhouette, dialogano ad alcuni metri di distanza, non si toccano, e in mezzo a loro c’è sempre la città, in forma di maquette. Le conversazioni passano – a parole – da una lingua all’altra (in realtà il testo è tutto in italiano) ma sono passaggi scivolosi, inafferrabili, proprio come il senso della loro relazione, che è anche la relazione tra culture, tra provenienze, tra convenzioni inconciliabili.
Di Giacomo è netto, razionale nel suo carattere di europeo sfuggente, Alice Conti mette un calore molto femminile nel suo graduale dischiudersi all’ignoto.

Le luci e i suoni di Marco D’Andrea e Gianluca Agostini, con le scene di Maria Paola Di Francesco, disegnano uno spazio ideale, astratto, rendono la situazione paradigmatica e contribuiscono a costruire una struttura che è emblema dell’ambiguità del testo.
Parole e città sono i due pilastri intorno ai quali girano i personaggi e la presenza degli attori, anche Giacomo Ferraù nel ruolo del giovane uomo è una figura di raccordo tra i due poli culturali in scena e che fa parte, diciamo così, del fronte arabo. È però abbastanza chiaro che il confronto è tra diverse logiche di pensiero e comportamento, non necessariamente Europa/Paesi arabi.

Autelli serve perfettamente il testo di Carnevali, monta un allestimento che lo esalta e dirige gli interpreti perché anch’essi servano la tela di parole senza volerne emergere in quanto personaggi. Un equilibrio ricercato, che a tratti rischia di mettere gli attori un poco in secondo piano.
Ma è come quando si accendono le luci di una città, di notte: le dimensioni si confondono ed è l’effetto d’insieme a meravigliare.

 

RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE

di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli
con Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù, Giulia Viana e Noemi Bresciani
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
disegno luci Marco D’Andrea
suono Gianluca Agostini
produzione LAB121

testo vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro – in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di NEXT Laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo ed. 2017/2018 – progetto di Regione Lombardia con il contributo di Fondazione Cariplo
in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù

Piccolo Teatro Grassi – Milano
13 novembre 2018