Nulla s’inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sè!
Il Fu Mattia Pascal, Pirandello
FEDERICA GUZZON e RENZO FRANCABANDERA |FG: La cronaca spesso ci porta a conoscenza di storie che, se volessimo inventare, non ne avremmo la forza. Aberrazioni, dolore, violenza e disumanità che ci disorientano come esseri umani.
Ci sono storie che non hanno narrazione, sono azioni che non trovano nella parola un contenitore abbastanza capiente da traghettarle. Ma le parole servono per tramandare, per tenerci in vita come una grande famiglia, come umanità. Tutt’una, così la descriveva Hegel.
L’arte testimonia un corollario di valori, di sentimenti e di percezioni frutto di ispirazione, vena creativa e contesto: imprescindibili per l’opera. La veridicità non è la sua esigenza primaria, ma lo è la sincerità nel mettersi in gioco per trovare quel contatto con l’io interno, di sé e della comunità tutta. Per questo l’arte si fa rivelazione, catarsi, riviviscenza.
RF: Il famoso tema dell’arte “necessaria”, “urgente”, aggettivi diventati talvolta parossistici e urticanti. Meglio non dirla, ma farla, questa Arte urgente e necessaria, dalla quale promani l’autenticità di una qualche sfida, quelle che si iniziano e già si sa che sono una pazzia, ma ciò nonostante ci si infila dentro, consapevoli di dove inizia il viaggio e avendo solo una vaga idea di dove si vorrebbe arrivare. Quello che c’è di mezzo, ma in fondo anche il finale, è ignoto in partenza.
Una cosa del genere, magari, ci si trova a pensarla quando, da padre, si arriva all’ultima pagina di una graphic novel (fumetto d’arte) in cui si racconta la storia (vera) di una ragazzina sfortunata. E si pensa, essendo attore, di imbarcarsi nella folle impresa di trasformare quei riquadri disegnati in un adattamento per il teatro. Perché la cosa brucia. È diventata urgente. E lo fai. Ti metti in viaggio.
FG: Io non ho pace è un dramma tratto dalla graphic novel Io so’ Carmela, che a sua volta si ispira alla vita di Carmela Cirella. Nessuna delle operazioni artistiche è una cronaca fedele, ma entrambe sono fedeli alla memoria della ragazza.
Carmela è nata nel 1993, suo padre è morto quando era una bambina e di lei si è preso cura Alfonso Frassanito, patrigno con il quale ha lasciato Napoli verso Taranto. Nel 2007 la ragazza si suicida, dopo essere stata stuprata per cinque uomini ed essere stata rinchiusa in una clinica sottoposta a dosi massicce di psicofarmaci.
Alessia di Giovanni e Monica Barengo disegnano la storia di Carmela dopo il ritrovamento del suo diario. Io so’ Carmela è il sentire dell’adolescente costretta a crescere troppo in fretta, come un neonato che deve camminare quando le sue ossa non sono ancora formate. Nella graphic novel c’è il suo sguardo sul mondo e c’è l’affetto del padre, il suo cercare di proteggerla, con fiducia e attenzione.
Dalla figura del padre è iniziata la riflessione di Io non ho pace. Roberto Biselli interpreta l’uomo, mentre Dacia D’Acunto la migliore amica di Carmela. Si ritrovano dopo anni su una panchina a ricordare e confessarsi, come mai prima.
RF: Il libro, oltre alla parte – assai bene – illustrata, contiene una serie di materiali documentali relativi anche alle grottesche vicende processuali: è un compendio dell’insensibilità del mondo reale, della burocrazia, rispetto al dolore e alla fragilità. Carmela era di certo uno spirito fragile, particolare. Il mondo violento in cui è nata e cresciuta, pur avendole regalato una figura genitoriale così straordinaria, diremmo quasi letteraria, di patrigno amorevole, l’ha condannata all’infelicità, a essere una sensibilità esposta. Al contrario di tutti gli “-igni” crudeli delle fiabe, quest’uomo ha amato e rispettato così tanto la figlia adottiva, da reclamarne il rispetto anche una volta morta, sostenendo una davvero assurda vicenda processuale per essersi permesso questa “incredibile” richiesta di decoro della memoria.
Facile immaginare che un padre-artista come Biselli, magari avendo futuri adolescenti in casa, si possa porre il problema del rapporto delle fragilità filiali con il male. E di come poterne limitare l’impatto eventuale, a volte distruttivo, devastante. Come portare poi tutto questo in scena? Da dove si parte quando si inizia un viaggio così? Forse meglio partire dal punto di arrivo (ad oggi) del viaggio. Sala Cutu. Teatro di Sacco, Perugia. Buio.
FG: Lo spazio è un non luogo, un posto sicuro nel quale il padre si rifugia per scontare il suo senso di colpa. Lì lo va a cercare la ragazza per dirgli finalmente tutto, ciò che sente e che sa. La voce si impadronisce della scena, i corpi sono quasi assenti e lasciano spazio a citazioni della Di Giovanni e alla drammaturgia della poetessa Barbara Bracci. Gli attori sono isolati con un telo, lontani dal pubblico per mettere in primo piano le proiezioni della graphic novel. Leonardo Giuli ha animato le immagini, che sembrano prendere vita con il sostegno della musica dal vivo di Francesca Lisetto.
Due persone spezzate dallo stesso dolore, in misura diversa, cercano di guardare al futuro. Dopo l’atrocità che hanno vissuto, dopo l’indifferenza delle istituzioni, la speranza appare una finzione. Allora la soluzione non è credere in un capovolgimento del mondo, ma accettarlo così com’è, marcio a volte, fragile spesso. Io non ho pace prefigura un male inevitabile, che si alimenta cannibalizzandosi: eppure riconoscerlo può liberare. Nel momento in cui si accetta di non essere in uno stato di calma statica, si inizia a lottare, per vivere e guardare avanti. Con delicatezza Io non ho pace trova nell’incontro dei due personaggi una possibilità di vita.
Lo spettacolo elimina ogni tensione e si affida alla parola testuale cercando di condensare in quel punto, che è un attimo astratto, un incontro fuori dal tempo e dallo spazio, una morale che risucchia ogni dimensione. Quando si affrontano temi del genere, a contatto con la vita vera, si è come funamboli con in mano un cristallo: per paura di frantumarlo si rischia di cadere.
RF: Premetto di aver visto una prova a dieci giorni dal debutto, quindi di avere uno scarto importante rispetto alla tua visione, avendo assistito ai primi allestimenti, alle prime filate, con lo spettacolo imbastito ma, diciamo, ancora “a cuore apertissimo”. Qui siamo in presenza di due elementi di particolare robustezza e che sono entrambi anteriori rispetto allo spettacolo: la vicenda vera e propria e la graphic novel. Drammatiche e ricche di pathos terribile. Una volta scelto che la vicenda di Carmela fosse affidata alle proiezioni delle immagini disegnate – cosa ben riuscita anche grazie all’ottimo lavoro grafico di Leonardo Giuli – le due figure della drammaturgia scenica vera e propria potevano o sviluppare un conflitto fra di loro o dare vita a una sorta di compianto, di lamento, creando un tenue controcanto rispetto alle crude immagini.
FG: Il pannello posto in primo piano cerca di creare un’atmosfera sospesa in scena perché la storia si faccia sogno. Eppure il rischio è di allontanare il pubblico che sentendosi escluso comprende, ma non partecipa. Allo spettatore manca l’incrocio di sguardo con gli attori e il flusso di energia, lo scambio, che riesce invece ad avere, paradossalmente, con la proiezione.
RF: La proiezione è ovviamente fortissima di suo, e sicuramente il telo finisce per creare un ultra-mondo, che deve compiere comunque uno sforzo grande per superare quella membrana pur trasparente, ma spesso occupata da un dramma, che ha una persistenza retinica e mentale molto molto forte. Diciamo che è la sfida dell’allestimento, la vera complessità dell’operazione.
FG: Intellettualmente Io non ho pace sviluppa un percorso di presa di coscienza e stimola a porsi con un nuovo punto di vista. Cerca un linguaggio catartico, sublimando e astraendo l’azione. Questo è ancora un seme che deve germogliare, l’intenzione non è atto compiuto e ciò che esiste concettualmente non trova forma corporea e sostanziale.
Siamo agli inizi e la forza del teatro è nel crescere e rinascere attraverso l’incontro tra palco e platea.
RF: Sicuramente è una creazione che ha bisogno di repliche, per creare quel rapporto necessario e forte fra palco e platea, come dicevi. Repliche nelle quali continuare a calibrare, anche a cambiare, se occorre, senza accanirsi su dettagli, ma cercando sempre e comunque la stessa onestà con cui il viaggio è iniziato. Tenendo fede a quel postulato, la significatività di eventuali imperfezioni sicuramente sfumerà davanti al portato complessivo.
L’operazione è coraggiosa, a suo modo meritoria, onesta. Si respira la sincerità di un’intenzione, che merita di poter avere “diritto di repliche” in cui le due recitazioni trovino sempre maggior affiatamento e forza per penetrare il tulle della proiezione. Penso di poter dire che è un lavoro che è bene che giri, per molti motivi. Sei d’accordo?
FG: Ci auguriamo di poter rivedere lo spettacolo a distanza di tempo e trovarlo più maturo perché lo sguardo profondo di Roberto Biselli merita di incontrare menti sensibili e spiriti audaci.
IO NON HO PACE
da Io so’ Carmela (di Alessia Di Giovanni, disegni Monica Barengo, Edizioni BeccoGiallo)
adattamento teatrale Barbara Bracci
regia Roberto Biselli
con Roberto Biselli e Dacia D’Acunto
videomaker Leonardo Giuli
sound designer Francesco Federici
voce e musica Francesca Lisetto
tecnico audio-luci Patrick Vitali
organizzazione Biancamaria Cola
Sala Cutu – Perugia
dal 23 al 25 novembre
debutto nazionale