LAURA BEVIONE | Un Pinter raffreddato sotto i plumbei cieli norvegesi: il tiepido humour definitivamente ghiacciato e il ritmo accordato alla estenuata lentezza delle giornate invernali. Il drammaturgo Jon Fosse è autore mirabile di drammi apparentemente esasperanti per le reiterazioni, i silenzi e i sottintesi che dicono più delle brevi battute, l’indeterminatezza di tempi e luoghi e pure delle identità dei personaggi, sovente neppure indicati con un nome proprio, bensì con il loro stato civile o la loro “funzione”: la madre, il figlio, il cognato…

Drammi innestati in una dimensione onirica e sfuggente eppure concretissimi specchi di verità esistenziali comuni – l’impossibilità di realizzare progetti e di vivere appieno i propri sentimenti; la superficialità della comunicazione e dei rapporti interpersonali – tanto da possedere una certa qualità catartica: opere scarne che, nondimeno, scavano nel nostro animo e ne eliminano – almeno in parte – le scorie.

Ciò avviene ancora più frequentemente allorché la loro messinscena riesce a tradurne la densa essenzialità: è quanto si sono dimostrate capaci di fare Thea Dellavalle e Irene Petris, con The Dead Dogs, spettacolo che, non a caso, si è aggiudicato il premio Forever Young 2017/2018 assegnato da La Corte Ospitale.

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Ph Andrea Macchia

Un giovane uomo e sua madre attendono la visita della sorella e del cognato. A un tratto giunge l’amico della giovinezza di lui, trasferitosi in città: i due indossano abiti identici, forse il secondo non è che la proiezione di ciò che l’uomo – o la sua famiglia – avrebbe voluto diventare… A sera arrivano finalmente anche la sorella e il cognato – quest’ultimo non particolarmente amato. Egli riconosce nel nuovo vicino di casa della suocera una sua vecchia conoscenza…
La madre, l’amico, la sorella e il cognato – in momenti diversi – domandano al giovane dove si trovi il suo cane, cui indoviniamo sia particolarmente legato. L’uomo finge di non preoccuparsi ma, a tratti, si distende pensoso su una delle tre panche che costituiscono l’essenziale ma pregnante scenografia.
A tarda ora qualcuno porta davanti alla porta dei protagonisti un sacco di plastica che racchiude il cadavere del cane, che probabilmente è stato ucciso: il giovane umano decide di seppellirlo in giardino… Il mattino successivo numerose macchine della polizia stazionano davanti alla casa del vicino, che nella notte è stato pugnalato a morte…

Non si tratta, però, di un giallo – nulla a che vedere con Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon– bensì di una riflessione – accennata e consegnata allo spettatore affinché egli la dispieghi e la faccia propria – sulla comunicazione autentica e sul valore dei rapporti interpersonali, sulla possibilità di sentirsi più compresi dal proprio cane che dalla propria madre.

Ma Fosse, così come non è interessato al thriller, tanto meno è intenzionato a sottolineare il valore di una pet therapy: il drammaturgo, al contrario, mira a ritrarre interni domestici dominati dal discorso digressivo e dal disperato aggrapparsi alle convenzioni e alle consuetudini, graniticamente convinti di quell’illusione che le difficoltà e le incomprensioni, se ignorate e accantonate, alla fine scompaiano da sé, quasi magicamente.

Il giovane uomo, invece, è lì a ricordare a tutti che una relazione autentica, allorché violentemente interrotta, non può che essere vendicata, anche a scapito del proprio futuro, nondimeno già compromesso da quella perdita.

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Ph Andrea Macchia

Le brave Dellavalle e Petris – entrambe registe, la prima anche traduttrice, la seconda interprete in scena – raffreddano adeguatamente la loro messinscena, attribuendole un ritmo decelerato e piano e spezzandola con proiezioni di immagini in bianco e nero e di definizioni dei possibili significati di dead dog e dead jogging – «distanziarsi emotivamente da una relazione, come quando sai che il tuo cane sta morendo e prendi distanza perché non sia emotivamente devastante».

Ecco, i personaggi di Fosse sono uomini e donne che hanno preso distanza dalla propria esistenza, tanto da abdicare persino alla parola: nel finale gli attori in scena, immobili, le loro voci fuoricampo.

Uno spettacolo che agghiaccia e spinge, usciti dalla sala, a parlare, a confrontarsi con gli amici su quanto ci sta accadendo nella nostra vita: una necessità involontaria eppure urgente.
Merito dunque a Devalle/Petris e ai loro misurati e concentrati compagni di palcoscenico per aver saputo portare in scena un testo irto e forse persino respingente, che richiede cura e attenzione; un testardo e affettuoso desiderio di comprendere ed essere con quella storia, con quei personaggi, con l’altro da sé…

 

THE DEAD DOGS
di Jon Fosse

traduzione Thea Dellavalle
progetto Thea Dellavalle, Irene Petris
luci Paolo Pollo Rodighiero
suono Claudio Tortorici, con la partecipazione di G.U.P. Alcaro
interpreti Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Federica Fabiani, Luca Mammoli, Irene Petris
produzione DELLAVALLE/PETRIS, La Corte Ospitale; con il sostegno di Sementerie Artistiche; in collaborazione con Centro Teatrale MaMiMò

Cubo Teatro – Torino
28 novembre 2018
www.fertiliterreniteatro.com