ELENA SCOLARI | I festival, teatrali e non, sono un’occasione per provare a capire dove si dirigono gli artisti, su quali argomenti scelgono di riflettere e fare arte. PAC ha potuto seguire una giornata di Wonderland 2018, organizzato a Brescia nel mese di novembre da Residenza I.Dra., con la direzione artistica di Davide D’Antonio, sbirciando anche tra un paio di proposte candidate al Premio Petroni, dedicato all’artista bresciana Lidia Anita Petroni.
L’immagine identificativa di quest’anno – che come per altri festival cambia decisamente per ogni edizione – mostra un Gargamella (il nemico dei puffi, sì) che tiene tra le dita gli esserini blu sopra un pentolone che ribolle; lo slogan recita “…non la solita minestra!”; nella presentazione generale si nega – giustamente – che il teatro sia morto, stia morendo ecc. ecc. Del resto lo dice e contraddice da decenni, la disquisizione non è più interessante, interessante è invece vedere su cosa lavora il teatro, quali sono gli interrogativi che si pone.

Dalla porzione di festival cui abbiamo partecipato sembra di poter affermare che il teatro di oggi si guarda intorno, prova a ragionare sulla società, su alcuni rischi che spaventano, su ciò che può essere fondativo, anche a livello personale.

Avendo visto solo venti minuti/promo delle proposte presentate alla prima giornata del premio Petroni ci limitiamo a segnalare che in Questione di vita o di morte la danzatrice Stefania Tansini attua una ricerca sul tema degli opposti, guardando dentro e fuori di sé; Fartagnan Teatro in Mangia sano, mangia umano tenta invece una parodia sulle derive del capitalismo all’interno di un’azienda che vende carne umana. Al di là di quale sarà il risultato finale entrambi provano ad affrontare temi di una certa caratura. Importante che anche il pubblico comune, oltre ai giurati, abbia schede di voto per valutare le proposte.

In Dove tutto è stato preso, della compagnia Bartolini/Baronio, si ragiona sul concetto di casa, su cosa significa avere un tetto sopra la testa e si fanno paralleli tra la fragilità della “struttura casa” e la fragilità intima di chi ci abita.


Lo spettacolo comincia con un lungo monologo (non è ben chiaro perché sia declinato al femminile) di Michele Baronio, che mescola con affanno crescente le difficoltà quotidiane e a volte ridicole della vita a preoccupazioni sull’ambiente, note anche ironiche sul contesto della città, confusione sul futuro.
Nel mentre Tamara Bartolini è stesa a terra e non partecipa, forse ascolta.

Si può dire che il lavoro sia diviso in tre parti: la prima è quella che abbiamo descritto, la seconda vede i due interpreti interagire e dialogare tra loro. Ci raccontano di un progetto (anzi: di un “proggetto” con due g) intorno a un casale da ristrutturare in un quartiere in espansione, per farne una somma di unità abitative e creare una comunità che conviva con un obiettivo di coesistenza sociale. La terza è affidata a Bartolini che, con la sua fisicità sincera, scalda un testo, piuttosto intelligente, che detto con meno immediatezza potrebbe però risultare un po’ attorcigliato su se stesso.

La casa – simbolica – di cui si parla, ha grosse travi di legno, rosicchiate dai tarli, e l’immagine più bella dello spettacolo è la domanda «e se anche i sogni fossero tarlati?». Già. Se fossero i nostri desideri a scricchiolare, a essere smangiucchiati lentamente fino a crollare sopra di noi lasciandoci allo scoperto?

L’originalità di questa metafora indovinata cade però quando Dove tutto è stato preso diventa più astratto, la musica si aggiunge a una proiezione di luna in un angolo alto della scena – Baronio è un po’ troppo in secondo piano in questa fase –, e Bartolini, seduta, dà le spalle al pubblico mentre salgono i versi che accompagnano un parto. Ecco, se il senso è quello di una nuova vita che rinnova il ciclo e che rappresenta la nostra responsabilità di fronte a un’eredità da lasciare ci sembra che sia una conclusione pericolosamente magniloquente e in attrito con il tono criticamente irrisolto, problematico e più convincente del resto del lavoro.

Ritroviamo a Wonderland la compagnia svizzera Trickster-p fondata nei primi anni 2000 da Cristina Galbiati Ilija Luginbühl. Il lavoro presentato è Nettles, un percorso in un ambiente-labirinto che ogni spettatore conduce in solitudine, accompagnato solo da cuffie e guidato da una luce che segnala il momento in cui passare alla stanza successiva.
L’allestimento dell’ambiente è, come sempre nei lavori di Trickster-p – ad esempio in h.g., versione molto speciale della fiaba Hansel e Gretel –, curato in ogni minimo dettaglio (anche le ditate su una bacheca di vetro sono messe ad arte) ogni oggetto è scelto con attenzione, posto nello spazio in modo ragionatissimo, forse perfino con un eccesso di geometria. La parte relativa ai suoni (di Zeno Gabaglio) è di qualità molto alta e gli effetti in cuffia davvero sorprendenti.

La cifra di Trickster-p si conferma caratterizzata da una precisione chirurgica, direi quasi clinica, in questo caso. La voce di Cristina Galbiati racconta in prima persona con tono piano, regolare, volutamente monocorde, episodi d’infanzia, ricordi di fanciullezza, memorie legate al padre scomparso. Questa strana compagna di viaggio ci mette a parte di sensazioni e domande, dubbi e pensieri personali sul confine tra morte e vita, sul legame con la figura paterna e su cosa significa la perdita di una parte della propria origine.
Ogni ambiente ha un suo nucleo narrativo ed estetico e produce una reazione molto diversa a seconda dello stato d’animo di ognuno: curiosità, inquietudine, angoscia, tenerezza, commozione. Questo benché l’emozione non sia affatto l’obiettivo del lavoro ma ne sia, anzi, una conseguenza non voluta, ma comunque ben accetta.

In una delle piccole stanzette ci sono una quarantina di finti scarafaggi in colonna, la voce racconta  in una descrizione lenta, che da bambina scoprì un nido di cervi volanti, con gli amici giocavano a catturarli, a infilzarli con gli stuzzicadenti osservando il momento esatto in cui le zampette si fermavano e la vita lasciava quel corpo d’insetto, per poi seppellirlo in una scatola di fiammiferi. Il tuffo subitaneo nella memoria di tante piccole avventure simili e la sovrapposizione di un pensiero adulto sulla separazione speciale di quell’attimo tra Essere e Nulla è una sottigliezza ricercata e acuta.

Sorvolando sulla descrizione di ogni singola stanza possiamo però dire che il testo (con la drammaturgia di Simona Gonella) offre spunti eterogenei per riflettere, a ciascuno secondo la propria sensibilità, su interrogativi grandi e intimamente collegati all’esperienza, soprattutto in riferimento al rapporto con il passato, con il proprio passato personale, con chi ci ha dato origine (uno dei genitori) e che un giorno ci abbandona, costringendoci a una consapevolezza di sé nuova.
E tra le tante cose che il teatro può fare, aiutarci a conoscere meglio il nostro animo è tra quelle impagabili.

 

DOVE TUTTO È STATO PRESO

di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio
regia Tamara Bartolini e Michele Baronio
drammaturgia Tamara Bartolini
produzione Bartolini/Baronio, 369gradi

 

NETTLES

Concetto e realizzazione Cristina Galbiati & Ilija Luginbühl
Dramaturgia Simona Gonella
Collaborazione artistica Yves Regenass, Mamoru Iriguchi
Spazio sonoro Zeno Gabaglio
Editing and mixing Lara Persia – Lemura Recording Studio
Realizzazione spazi F.M. Scenografie srl (Buccinasco)
Consulenza informatica Roberto Mucchiut