RENZO FRANCABANDERA | Trovarsi poi, dopo un viaggio di diverse ore in aereo, in un altro continente. Il taxi dall’aeroporto inizia a infilarsi nelle strade, numerate. Altissimi grattacieli, led luminosi, vetrine, chioschi di street food, il fiume di gente, il fiume. È stato forse così quando sono arrivati.
Italian Playwrights Project, a cura di Valeria Orani e Frank Hentschker, dedica il 13 e 14 dicembre a New York un focus alla drammaturgia di Marco Martinelli e alla presenza scenica a suo modo mistica di Ermanna Montanari. Sono i fondatori e direttori artistici del Teatro delle Albe.

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Ph Cesare Fabbri

Due giornate di incontro, con reading di Ermanna Montanari, a partire da fedeli d’Amore – polittico in sette quadri per Dante Alighieri (traduzione in inglese di Thomas Simpson).
Una porta di ingresso da oltreoceano al Cantiere Dante e quindi al progetto La Divina Commedia 2017-2021 (con Ravenna Festival, Matera-Basilicata 2019 e Timisoara 2021) e Il cielo sopra Kibera, “messa in vita” della Commedia nello slum di Nairobi promosso da Avsi. Per fedeli d’Amore e per il recente Va’ pensiero Ermanna Montanari è, tra l’altro, nella rosa dei candidati ai Premi Ubu 2018, come miglior attrice.

Gli incontri e le letture del 13 e 14 dicembre, a New York,  li vedranno in dialogo con Valeria Orani, direttrice di Umanism a New York e di 369gradi in Italia, e Frank Hentschker, direttore del Martin E. Segal Theatre Center-Graduate Center CUNY, curatori appunto di Italian Playwrights Project, e con Federico Rampini, giornalista, scrittore, corrispondente capo dagli Stati Uniti per La Repubblica.

Questa due giorni, realizzata con il supporto de La MaMa Theatre diretto da Mia Yoo (Tony Award 2018), di Casa Italiana Zerilli Marimò–New York University diretta da Stefano Albertini e dell’Istituto Italiano di Cultura di New York diretto da Giorgio Van Straten, si inserisce nella seconda annualità di Italian Playwrights Project, progetto nato a New York nel 2015 per promuovere la drammaturgia italiana contemporanea in USA, che ha avuto una prima tappa nel 2016 sulla drammaturgia di Stefano Massini.
Abbiamo intervistato Valeria Orani.

077dbf7a-0c05-476a-af1f-0bf364e73b21Valeria come sono le albe a New York? Ne hai viste molte col jet lag iniziale, dopo esserti trasferita lì?
Grazie Renzo, questa è una domanda a cui rispondo veramente volentieri. Le albe qui a NY sono d’oro. Non lo dico per dire. Il colore del sole che sorge è talmente “d’oro” che tutto intorno diventa dorato. Ne ho viste molte, sia per i jet lag sia per il fatto che di solito mi sveglio sempre molto presto.

E dopo American Playwright Project dell’anno scorso, quest’anno per chiudere il 2018 in bellezza, le Albe te le sei fatte arrivare dall’Italia. Sono un bel regalo per i newyorkesi Ermanna e Marco…
Ermanna e Marco sono un bellissimo regalo per chi ha la fortuna di averci a che fare. Mi ritengo privilegiata e sono felice poterli avere ospiti a New York per due appuntamenti, uno a La MaMa Theatre il 13 dicembre e uno alla Casa Italiana di NYU il giorno successivo.
Il programma prevede due giorni di conversazione sulla scrittura di Marco Martinelli e sul percorso artistico delle Albe dove interverranno Frank Hentschker, direttore del Segal Center e cocuratore del progetto, Allison Cornish, Professoressa di NYU esperta in studi Danteschi e vice presidente della Dante Society, Federico Rampini, corrispondente US de La Repubblica, con il quale si cercherà di tracciare la connessione tra la società dantesca e quella contemporanea.
Durante le conversazioni Ermanna leggerà qualche brano di “fedeli d’Amore” e il Canto XXXIII della Divina Commedia (in italiano con sopratitoli).
Ci sarà anche una lettura in inglese il primo giorno: Rocco Sisto interpreterà, con la guida di Marco Martinelli, un brano di Rumore di Acque tradotto da Thomas Simpson.
Il progetto Italian Playwrights Project è biennale e questa è la seconda edizione. Nel primo anno vengono presentati i testi selezionati attraverso brevi estratti in inglese, durante il secondo anno questi testi vengono tradotti integralmente e l’appuntamento con il pubblico prevede l’incontro con un autore o autrice rappresentativi del panorama italiano.
Il primo anno abbiamo ospitato Stefano Massini. Il nostro invito gli arrivò in contemporanea all’intenzione di Sam Mendes di produrre Lehman Trilogy, che presto sarà in scena qui a NY dopo Londra.
Dall’Italian Playwrights Project si è avviato per Massini un dialogo con la scena newyorkese fruttuoso. PlayCo, una importante produzione off-Broadway, dopo il nostro incontro, ha deciso di mettere in scena Donna non rieducabile, che ha debuttato lo scorso settembre.
La scena di New York ignora completamente o quasi il panorama italiano contemporaneo, specialmente per ciò che riguarda le arti dal vivo. La fortuna va costruita e aiutata. L’intento dell’Italian Playwrightis Project è proprio quello di contribuire in questo senso.

Quale pensi sia il tema profondo di cui il Teatro delle Albe è portatore e che può interessare una città come New York?
Partiamo dal lavoro che Le Albe dedica a Dante.
La contemporaneità dei contenuti della Divina Commedia è sicuramente un tema che tocca la sensibilità di tutto il mondo intellettuale, anche americano.
Cantiere Dante é un ottimo punto da cui partire per innescare interesse e collaborazione con gli USA.
Come tutti i progetti si guarda al futuro. Con Le Albe stiamo sperimentando l’avvio di  un percorso che si svilupperà nel prossimo biennio con strutture professionali e accademiche e che, partendo da New York, tocchi altre tappe come la Pennsylvania e Chicago.

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Ph Daniela Zedda

E tu, come programmatrice culturale, che vieni dalla scuola di Fulvio Fo, cosa pensi significhi programmare cultura nella società? Pensi ci sia davvero tanta distanza fra America e Italia? E New York è poi davvero America?
Fulvio Fo mi ha insegnato il ruolo che un organizzatore deve saper sostenere e la responsabilità che ricopre nei confronti degli artisti e dell’arte come veicolo culturale con la società che ci circonda. Questa attenzione racchiude il significato e l’urgenza. Programmare cultura attraverso il teatro o la drammaturgia è tradurre universalmente l’urgenza intima dell’artista di raccontare una parte di sé o una sua intima visione. In un momento storico in cui chiunque si sente autorizzato a dover riversare nel mondo le proprie priorità, il ruolo di chi promuove cultura diventa più delicato, perché la responsabilità è anche quella di sapere riconoscere cosa veramente valga la pena trasmettere.
Credo che New York non sia America, così come credo che l’Italia non sia Europa.
La distanza tra New York e l’Italia è sicuramente tanta. La differenza più evidente per me è la percezione del proprio valore, anche economico. Promuovere cultura italiana contemporanea significa colmare un vuoto importante ma anche sapere di farlo per incontrare una necessità più italiana che americana. Con questa prospettiva il rischio e la responsabilità raddoppiano, ma ne vale la pena.

Di recente sei stata anche la produttrice della “folle” e grandiosa sfida scenica di Marras. Cosa ha aggiunto al tuo percorso questa impresa?
Chi conosce il mio lavoro sa che da tanto tempo mi dedico al dialogo tra le discipline artistiche. 369gradi nacque proprio per riunire artisti con provenienze diverse. “Mio cuore io sto soffrendo. Cosa posso fare per te? nasce prima di tutto come performance, site specific nelle ex Cantine Folonari di Brescia a supporto di una mostra di Antonio Marras, artista poliedrico che usa il suo successo nella moda come pretesto per poter esprimere se stesso nelle arti. Il talento, l’entusiasmo e la “follia” di Marras sono riusciti a coinvolgere un gruppo di lavoro di grandissimo valore e di riconosciuta professionalità. Una produzione che coinvolge più di trenta persone tra interpreti e collaboratori, tutti letteralmente rapiti ed entusiasti di ciò che si sta riuscendo a costruire insieme. Un progetto difficile, perchè nasce grande, avviato ora – dopo l’anteprima in Sardegna portata in scena grazie al Circuito Cedac – al debutto in prima nazionale nel prossimo autunno 2019.

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Ph Daniela Zedda

Non vorrei però definire questa una sfida. Antonio Marras si approccia al teatro come luogo possibile per poter esprimere la sua visione, come già fa in altri ambienti artistici, pure a ribadire che non possono esistere confini, discriminazioni, anche nelle arti.

Da programmatrice di due continenti, ci vuole più coraggio a partire, a rimanere o a tornare? E la sfida è restare umanisti, oltre che umani?
La prima volta che partii avevo 19 anni. Oramai la mia vita è fatta di partenze più che di stanzialità. Il coraggio di rimanere non lo conosco; partire lo considero uno status naturale della vita che ho scelto. Il coraggio è la mia personale sfida nel mettermi in crisi rispondendo alle mie tendenze con forti controtendenze. L’Umanesimo contemporaneo sono convinta che passi proprio dal riconoscere la natura imperfetta che ci appartiene trasformandola ogni volta che ne abbiamo l’occasione, un’azione concreta e un grande incoraggiamento che mi viene trasmesso dalla mia quotidiana pratica buddista.