ILENA AMBROSIO | Un sodalizio – questa la parola più adatta, nel suo rimandare al legame amicale – che dura da più di dieci anni quello tra Daria Deflorian e Antonio Tagliarini: prima che il percorso di una compagnia, il cammino di due persone che hanno messo in contatto i propri mondi, intimi e artistici, cercando, lavoro dopo lavoro, un modo di stare in scena che riuscisse a far coincidere quelle due dimensioni, a offrire un essere unico che è persona e personaggio, interiorità e corpo; che è la vita, insomma.
Quasi Niente ne è l’ultima prova. Dopo averne parlato su PAC per la prima nazionale al Romaeuropa 2018, li abbiamo incontrati a Bologna, in occasione delle repliche all’Arena del Sole e della presentazione del testo di Quasi niente al bellissimo Centro delle donne.
Ne è scaturito un discorso sulle fasi di creazione dello spettacolo, sul suo legame con Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, e sulla “costola autonoma” che è il progetto Scavi; ma anche un dialogo che apre più di una finestra sul loro mondo artistico e restituisce ulteriori chiavi di lettura e di senso a riguardo del loro fare arte.
Quasi niente si inserisce in quello che parrebbe un vostro modus operandi creativo: porre un oggetto terzo come riferimento del mondo scenico che andrete a creare. È un approccio metodico alla creazione oppure un procedimento che cambia di volta in volta e che stratifica esperienze, errori, ragioni del vostro esservi incontrati, pur così diversi?
DD: Di certo non possiamo dire di avere un “metodo”. Piuttosto un procedere che non dimentica quello che è successo prima e nello stesso tempo vive di una sana e indispensabile insoddisfazione, altrimenti non si sentirebbe il bisogno di fare un lavoro successivo.
Tra noi tutto è partito in maniera istintiva, molto – sanamente – naïf; dall’energia di un incontro tra due adulti con storie artistiche diverse.
Ci hanno legato l’amicizia e anche dei desideri che grazie all’altro si sono potuti realizzare.
Un completamento fra le vostre differenze, una compensazione?
DD: Certo. Per me l’incontro con Antonio, tra le tante cose, ha confermato l’importanza della leggerezza dentro questioni profonde.
La superficialità nel senso positivo del termine, intesa come superficie, è un elemento fondamentale della comunicazione, perché in fondo si comunica con la pelle…
È la pelle che si tocca…
DD: Esatto, la pelle si tocca e prende il colore di ciò che cambia in profondità. Arrossisce, sbianca…
Il fatto che si possa anche ridere di cose che fanno male è una grande risorsa del nostro lavoro.
Una dimensione che siete riusciti ad attivare anche con Il deserto rosso. Cosa ci avete visto che poteva essere ricontestualizzato nel qui e oggi, facendo poi diventare il film oggetto di indagine?
AT: Abbiamo riguardato Il deserto rosso mentre lavoravamo a Il cielo non è un fondale: abbiamo capito subito che sarebbe stato il punto di partenza del lavoro successivo.
Lavorandoci, poi, abbiamo realizzato, o meglio, verificato, che la questione centrale per noi era il malessere, il disagio, il non riuscire a stare in questa realtà.
Giuliana questo disagio se lo porta addosso per tutto il film.
DD: C’è stata anche una coincidenza a livello personale: noi stavamo avendo un successo inaspettato.
Il successo in qualche modo ti sposta, ma tu continui anche a essere la stessa persona, con gli stessi disagi, malesseri, mentre ci si illude sempre che risolvendo o ottenendo delle cose… Insomma, le banalità che pensiamo tutti.
Ecco, Giuliana aveva questo di meraviglioso per me: una donna totalmente risolta, sposata, benestante, con un figlio, di stile, eppure la quintessenza dello star male.
Oggi pensiamo che il miglioramento delle condizioni di vita esterne permetta di stare bene.
E invece poi ci rendiamo conto che si apre una crepa ancora più irrisolvibile.
Perché quando hai tutto cominci a mancare?
Tutto ciò mi sembrava fondamentale.
Ma questo male c’è sempre stato? Si viveva in modo diverso?
DD: Assolutamente sì.
Non solo: c’era una narrazione diversa, sia a livello individuale, che di ambiente ristretto, oltre che di contesto storico.
AT: …ma è anche questione di come si teorizzano certe cose.
Mark Fisher [del quale, durante lo spettacolo, è citato un brano da Buono a nulla, ndr] in questo ci è venuto in aiuto perché soffriva di depressione ma, essendo anche osservatore spietato del nostro mondo, ha teorizzato questo malessere, l’ha scritto, l’ha riconosciuto storicamente contribuendo a dare complessità scientifica alla questione.
DD: E poi, dopo la psicanalisi, si sta finalmente prendendo in considerazione quello che è lo sfondo: il mondo dal quale vieni, le figure che ti hanno fatto da modello, e così via.
È un aspetto che abbiamo potuto sviluppare proprio grazie ad Antonioni: i suoi personaggi sono totalmente immersi nel loro mondo.
Parliamo di depressione, psicanalisi, contesti sociali reali. Ma anche di finzione, perché voi portate tutto questo in scena. Come mettere in contatto, in modo credibile, questi due piani?
DD: L’influenza di tutto quello che circonda l’individuo è un arricchimento per la comprensione di questioni che vanno di pari passo con il discorso sul teatro e sulla sua funzione.
Quasi niente non è solo una riflessione sul malessere, ma indaga anche la presenza e la capacità o meno di rimanere vivi; e questo sia nelle relazioni che in scena.
C’è qualcosa per cui la vita e il teatro inevitabilmente dialogano per parallelismi.
Fare commedia della propria vita o fare dramma della propria vita non è la stessa cosa che vivere.
Così come, a teatro, riprodurre un pensiero che hai avuto un giorno oppure riattivarlo in quel momento, di fronte al pubblico, sono cose diverse.
Non ci sono ricette: noi non sappiamo come essere presenti, nella vita come in scena.
Eppure in Quasi niente la vostra presenza/essenza è palpabile. Vostra come degli altri interpreti che sono con voi. In che modo è stato possibile riunire componenti molteplici – il film, la questione del malessere, le vostre individualità – in un tutto?
DD: Da questo punto di vista noi siamo una “sana” contraddizione: non siamo un collettivo creativo ma non dirigiamo degli attori.
Cosa c’è in mezzo a queste strade? Il fatto che gli autori siamo Antonio e io (non del testo, ma del tutto). Tuttavia cerchiamo, pur riconoscendo le diverse attitudini, di lasciare le maglie larghe.
E questo anche con le persone che lavorano con noi: non pretendiamo che siano produttrici di mondo, ma non lo impediamo.
Tutto il mondo che arriva, viene accolto.
AT: C’è ovviamente un dialogo forte con il film, che non è stato deciso a priori, si è verificato, man mano, all’interno del gruppo.
Tutti ci siamo messi insieme in questo processo di indagine. La cosa interessante è che poi ognuno di noi sa come interagisce con quella questione.
Il tema si pone e poi, tramite improvvisazioni, ciascuno lo mette in circolo, anche rispetto a dove è nella propria vita.
Volevamo parlare del nostro tempo, di oggi, e questo è stato un altro passo fondamentale per porre noi stessi nella condizione di riflettere insieme a chi è con noi – il pubblico – sul perché siamo comunque tutti nella stessa condizione di malessere, ognuno a proprio modo.
Ma nel finale pare ci sia una svolta. Giuliana ammette di dover «rendersi conto che tutto quello che le succede è la sua vita». Come è entrata questa consapevolezza in Quasi niente?
AT: È vero, c’è un progresso nel film, uno spostamento, anche se piccolo.
In scena Monica Piseddu [La Quarantenne ndr] dice che la sua poltrona [uno di quegli oggetti di arredo che in qualche modo sono parte dei personaggi ndr] «è rotta è… sempre stata rotta…» che tentava di aggiustarla ma poi, quando era sola, la smontava perché «ci sono delle volte in cui ci si può dire come stanno le cose».
Ecco, ogni tanto ci si può dire come stanno le cose, proprio come fa Giuliana.
Questi due progressi, nello spettacolo, sono in un certo qual modo legati; sono una sorta di illuminazione: la comprensione che il problema non è guarire, ma come ci si rapporta al malessere.
Alla fine l’idea di Quasi Niente è luminosa, seppur aperta a interpretazioni diverse. Un’apertura che per me è fondamentale nell’arte, perché l’arte deve saper spostare chi la guarda verso un altrove.
Il finale di Quasi niente ti fa chiedere: dove sono io rispetto alla mia “commedia”? Dove sono gli altri? Apre delle domande…
E la risposta dipende da dove uno è nel mondo in quel momento.
E Scavi? Che tipo di legame ha con Quasi niente? Nascono dalla stessa sorgente emotiva?
AT: Scavi è nato prima, da un doppio desiderio.
Da un lato, avere un oggetto che facesse parte dello stesso progetto di Quasi niente, ma che viaggiasse su un binario diverso, che fosse produttivamente meno impegnativo; dall’altro immettere una parte del nostro lungo lavoro di ricerca in una dimensione di condivisione con il pubblico dove si scava un rapporto non tanto con Il deserto rosso ma, in generale con Antonioni, con il legame che aveva stabilito con Monica Vitti, Amelia Rosselli, Tonino Guerra, Lea Massari con la quale aveva lavorato…
Tutta questo viene condiviso con il pubblico che è con noi.
DD: Però non è un racconto su di loro, ma su di noi, su come stiamo…
Nello spettacolo, spinti dalla quella già citata insoddisfazione, abbiamo tentato di annullare quell’andare dentro e fuori una figura, cercando una figura terza che ci permettesse di stare lì tutto il tempo.
In Scavi invece ci prendiamo tutta la libertà di essere Daria, Antonio e Francesco [Alberici], ciascuno nel tempo presente della ricerca, con i propri dispiaceri, le proprie domande che vanno a riflettersi sul materiale di indagine.
AT: In sostanza a cambiare è il tipo di filtro.
In entrambi i lavori c’è una parte di noi ma in Scavi è più dichiarata: ci siamo noi e parliamo di noi come figure che, messe accanto ad Antonioni, al film, a Giuliana, si sono spostate.
Uno spostamento i contorni del quale sono certamente dipesi dal materiale che stavate toccando. Torna il tema del contatto bruciante, della pelle...
DD: Infatti in questi giorni sto pensando proprio che non avremmo potuto che lavorare a Il deserto rosso.
Da una parte è ovvio che l’oggetto ti cambi, ma se quell’oggetto ti ha attratto, è perché ha trovato terreno fertile, ha trovato quel buco nel quale ancora non hai guardato, quella domanda che non sai ancora che ti stai facendo, quella zona di buio nella quale senti che ci sono delle cose, ma ancora non ne sei consapevole.
Quando poi arriva lo spettacolo riconosci che alla fine era tutto già dentro quella stanza, solo che era buia…
Si tratta allora di raccogliere, via via nel processo creativo, i fili elettrici, gli strumenti e di realizzare “l’impianto” per illuminarla.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.