ILARIA COSTABILE |Parlare dell’arte scenografica oggi vuol dire saper abbracciare varie suggestioni, apprendere da ogni forma di espressione, modellandola per restituirla agli occhi di un pubblico sempre più affamato di una verità dal sapore onirico. Ed è quello che da anni mette in atto Giacomo Andrico, uno degli scenografi e progettisti più affermati sulla scena teatrale odierna, nazionale ed internazionale. Le sue collaborazioni con i maggiori teatri d’Italia e con registi di acclarata fama, oltre che la sua sensibilità scenica e artistica – trasmessa anche ai suoi allievi della Naba (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano, dove insegna da circa dieci anni – ne fanno una delle personalità più interessanti del panorama artistico attuale, parte integrante di quella generazione che ha sempre visto nel teatro una forma altissima di comunicazione, di coinvolgimento, asaltandone le potenzialità e contribuendo alla creazione di opere che sono divenute pilastri della drammaturgia e della regia.

Ne è un esempio l’ormai storico Copenaghen interpretato da grandi della scena come Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice, di nuovo in scena al Teatro Argentina, occasione che noi di Pac abbiamo colto per uno scambio con Giacomo Andrico, che di quello spettacolo ha disegnato lo spazio scenico, e che ci racconta di questa parte del linguaggio dello spettacolo dal vivo.

IC: Partiamo da Copenaghen, uno spettacolo che ormai va in scena da anni, ma che mantiene intatta la sua tensione discorsiva, politica e anche morale. La scenografia sembrerebbe quasi avere una struttura concentrica, come se i tre protagonisti fossero la forza attrattiva verso cui e da cui si dipana tutto ciò che li circonda. Si ritrova con questa percezione? Qual è stata l’idea costitutiva di questa scena?
GA: Lo spettacolo con grande sorpresa, mia e del regista, riesce a mantenere la sua forza e una potente presa sul pubblico, se consideriamo che sono ormai dieci anni che replica a più riprese.
Anche lo spazio ha mantenuto nella sua astrazione una imponenza fisica che ci stupisce ancora.
La superficie centrale della scena ha una sua importanza, un suo peso che deve essere bilanciato e sorretto da un testo drammaturgico che abbia un meccanismo perfetto o dalla straordinaria abilità attoriale dei suoi interpreti.
E in questo caso non mancano certamente tali componenti.
Abbiamo deciso, poi, di adoperare qua è là delle lavagne; sentivamo la necessità di “giocare” provando a inserire tensioni asimmetriche che aiutassero a umanizzare quel luogo, a renderlo più minuto e abitabile.
In realtà  tutta l’impalcatura scenica si sostiene con un gioco di equilibri, ad esempio lo spazio praticabile, ovvero la pedana inclinata del 18%, ha la funzione nascosta di proiettare gli attori verso il pubblico, svolge quasi la funzione di un primo piano cinematografico.
Ricordo che, montata al Piccolo di Milano nella Sala Paolo Grassi, eravamo impressionati dalla forza di questo spazio semplice e assoluto che offriva nelle braccia del pubblico gli attori, erano lì tra noi come fossero stati su una piattaforma elisabettiana.

Copenaghen.jpg

IC: L’inventiva, la creatività sono alla base di qualsiasi lavoro artistico, ma in teatro la scenografia ha un ruolo predominante, è parte integrante della rappresentazione stessa, le aggiunge intensità e significato. Lei crede che, attualmente, sia ancora valida questa concezione o si mira di più alla spettacolarità della scena per se stessa, allo straniamento delle ambientazioni?
GA: Lo spazio scenico è un segno registico fondamentale per uno spettacolo costruito con un forte impianto interpretativo.
Un progetto lo si condivide a pieno con il regista. Ci si deve intendere, capire, fidare… Sono rari i registi oggi che hanno la capacità di usare un segno forte e di senso in uno spettacolo.
La scena è ancora un impianto tridimensionale dai volumi assai presenti e vincolati ai movimenti degli attori.
Oggi si tendono a usare molto le proiezioni per stupire il pubblico. Io stesso ho fatto molti spettacoli con proiezioni, ma raramente mi stupiscono e mi convincono: a mio avviso, vanno usate con molta discrezione, con misura e sapienza, e, comunque, sempre legate  all’idea registica.  Anche un proiettore di immagini di ultima generazione non ci stupirà mai come la presenza fisica e silenziosa dell’attore in uno spazio tridimensionale con oggetti reali.
Il teatro resterà sempre un atto fisico di tempo e spazio in relazione allo spettatore.

Aterballetto presenta

IC: Lei è stato, agli inizi della sua carriera, attivo come scenografo di opere liriche, sia in Italia che all’estero. Siamo soliti vedere in questo ambito degli allestimenti piuttosto attinenti al reale ed estremamente maestosi. Crede che ci sia spazio per una modernità, una concettualità artistica anche nella lirica?
GA: Il lavoro nell’opera lirica è complesso e sorprendente, credo sia ancora oggi una delle forme di spettacolarizzazione tra le più complete ed esplorabili.
Si fanno allestimenti realistici e a volte sontuosi, ma la strada della simbolizzazione e dell’astrazione nella lirica è molto promettente.
Personalmente cerco sempre, per ogni opera che affronto, un segno che sintetizzi le forme plastiche necessarie alla messa in scena. Il segno registico di uno scenografo nell’opera è molto visibile e determinante. Se riesci a organizzare bene lo spazio, il lavoro musicale del compositore ti eleva a un livello difficile da immaginare, ti avvicina a lui e alla sua idea.
L’opera lirica ti cresce tra le mani, come nutrita dalla composizione musicale che la definisce e che ne delimita spazi e misure. Progettare spazi per autori come Wagner, Mozart, Bellini, Verdi e Puccini è una sfida difficile ma esaltante: nella loro musica loro hanno già la partitura dello spazio e non è facile reggere la loro grandezza artistica.
Oltre che nel nostro Paese, da quattro anni progetto opere per una grande città come Seoul. Lì amano molto il melodramma italiano e per loro è importantissimo che un’opera venga pensata e disegnata concettualmente da un regista e da uno scenografo italiani: è una questione di ritmo, gusto e sentimento che riconoscono al nostro DNA artistico.
L’opera, oltre che musica, è spazio e immagine, e spesso, lavorandoci, si ottengono risultati straordinariamente poetici e toccanti. Davvero impensabili.

Trittico Suor Angelica
Trittico Suor Angelica di Puccini ph. Rolando Paolo Guerzoni

IC: Quale crede sia lo stato del teatro oggi? Cosa cambierebbe, se potesse?
GA: Le immagini e i racconti che ogni forma d’arte può generare sono necessarie all’esistenza dell’uomo. È molto semplice: ogni forma d’arte per me equivale a un piccolo fuoco e da sempre gli esseri umani si sono trovati attorno a un focolare, la sera, a raccontarsi delle brevi storie, a ricordarsi dei gesti compiuti in una giornata, a guardarsi, a specchiarsi nelle fiamme dove  si possono sentire le voci dei Lari. Per questo motivo il teatro non morirà mai e così anche il cinema.
Servirebbe più consapevolezza, ammettere che ogni forma d’arte è una cura per anima, corpo e mente, e… ovviamente, anche più Pil per la cultura! Per poter generare più bellezza e non faticose grevità.Giacomo Andrico

IC: A proposito di cinema. La sua attività non si è limitata solo al teatro,  è stato anche regista di cortometraggi. Come è stato rapportarsi con lo strumento filmico, a tratti così surreale se confrontato con la tangibilità della scena teatrale?
GA: Il cinema, il cinema documentaristico soprattutto, per me è uno strumento vitale. Filmo sempre, filmo quasi ogni giorno delle immagini che affiorano dalla realtà.
Il cinema ti fa apprezzare il tuo tempo, porta la tua percezione a essere totalizzante, apprezzi l’intensità di un primo piano quanto il leggero muoversi di una foglia nel vento lieve.
Pasolini mi ha insegnato a vedere l’aspetto miracolistico di ogni forma e di ogni attimo di vita; Fellini mi ha educato all’essere compassionevole, un sentimento che si può nutrire verso ogni volto e verso ogni situazione.

ICCosa crede sia davvero imprescindibile per uno scenografo e progettista oggi, qual è la dote migliore che possa avere, quella che insegnerebbe, trasmetterebbe ai suoi allievi della Naba?
GA: Conoscere tutte le nuove tecnologie, tutti i nuovi materiali che la modernità ci offre con grande generosità, ma soprattutto avere un grande sentimento dello spazio scenico. Bisogna amare quello spazio, il silenzio che genera, la presenza che trasmette, la possibilità che ti dà nel poter essere presente, in una maniera quasi sacra,  a quel silenzio e a quella magia che genera. Lì, in un istante unico, si sta in quel luogo e con quel luogo, con quella storia e con quegli uominiattori. Tutto questo oggi è unico e sempre più raro.