RITA CIRRINCIONE | Parliamo ancora dell’anteprima alla rassegna Scena Nostra, allo Spazio Franco di Palermo. Abbiamo visto La Prima, esordio alla regia di Filippo Luna, poliedrico attore di formazione teatrale con una lunga e variegata esperienza che spazia dal teatro classico a quello contemporaneo, ultimamente sempre più spesso impegnato anche in ruoli cinematografici e televisivi.

Tratto da un testo di Annalisa Bianchini, basato sulla sua esperienza giudiziaria come avvocato matrimonialista, nell’adattamento di Filippo Luna, La Prima diventa un’operazione di metateatro con una personale riscrittura degli stilemi tipici di questa pratica.
Per il suo debutto alla regia l’attore palermitano sembra avvalersi, come fonti propiziatorie, di due solide, “vicine” ascendenze letterarie: una, più esplicita, pirandelliana, che si rivela nell’impianto drammaturgico ma anche nei temi dell’incomunicabilità, nel relativismo delle posizioni e nell’impossibilità di una realtà oggettiva; l’altra, sciasciana, più sottesa, riconducibile all’innesto di trame narrative su strutture documentali – spesso di natura giudiziaria – nelle quali la distinzione tra fiction e non fiction arriva a elidersi.

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Ph Lucio Ganci

La Prima è, appunto, la prima rappresentazione di una pièce interpretata da una giovane attrice.
Sola sul palcoscenico, in un elegante abito da sera – unici oggetti scenici, uno sgabello alto e un’asta con il microfono – inizia la sua performance con una canzone, un motivo triste che parla di un amore, della paura di non essere più amati, di essere abbandonati.
Segue un lungo monologo – in realtà un dialogo immaginario con la madre – nel quale la protagonista rievoca la sua infanzia di figlia di separati, ripercorrendone i diversi momenti e i vissuti a essa legati. Sembra una di quelle storie di separazione, sentite tante volte, che si somigliano un po’ tutte: la fine del matrimonio dei genitori, le dispute per l’affidamento, la scelta dei giorni o delle festività da trascorrere con l’uno o con l’altro, il suo corpo come territorio dei loro scontri, il suo sentirsi in colpa, scissa nell’amore per loro, come se amarli entrambi, dopo, non fosse più possibile.

La recitazione è intensa, partecipe: con piglio spavaldo, la giovane scaglia le parole come una sfida, le urla quasi, come se altrimenti non potessero venir fuori. Sembrano parole sepolte dentro di lei da chissà quanto tempo, parole non dette che non ha mai trovato il coraggio di tirare fuori.
Accompagna la narrazione con gesti ampi, enfatici, con un’ostentazione teatrale che sembra oltrepassare le ragioni drammaturgiche: «Mi facevi male, mi facevi i buchi nel cuore!»; «Avrei voluto ferirti, invece il più delle volte dovevo consolarti!»; «No, non sei stata in grado di amarmi davvero!».

Nel suo monologo tornano parole, frasi, gesti della madre che lei avrà visto, sentito e “patito” chissà quante volte, che adesso in scena ripete in modo ossessivo, quasi coatto; gesti e parole che sembrano possederla, come se avessero una vita propria: «Tuo padre è un uomo pericoloso»; «Tuo padre è inadeguato»; «Meno male che ci sono io a proteggerti».

In una crescente partecipazione emotiva, che la porta a muoversi nervosamente, a scomporre la sua mise elegante, a sciogliere l’acconciatura, a liberarsi dei gioielli di scena, rievoca i tanti episodi di ordinaria quotidianità di figlia divisa tra la madre, una donna ferita, piena di rabbia, disorientata anche nel suo ruolo di madre, che tende a farsi vittima, ad “adultizzare” la figlia; e il padre, un uomo messo continuamente in cattiva luce dall’ex moglie, che sembra avere raggiunto un suo equilibrio con la nuova compagna, che ama la figlia come può: «Avrei voluto che tu non mi avvelenassi quel poco che riuscivo ad avere da lui».

Il pubblico è attento, muto, partecipe. Qualcuno in sala tossicchia, borbotta qualcosa, fa eco a qualche frammento del monologo, ripete qualche frase smozzicata, dapprima impercettibilmente, poi in modo sempre più palese.
Gli spettatori in un primo momento pensano al coinvolgimento di qualcuno con un vissuto analogo, poi, sempre più insofferenti per tanta rumorosa partecipazione, scrutano nel buio della sala, si girano verso la fonte del fastidioso borbottio, come a volerlo zittire. Nella semioscurità gli occhi puntano una donna visibilmente inquieta che reagisce alle parole del monologo in modo sempre più manifesto. Tra il pubblico, sconcertato, vola qualche commento.

Finalmente le luci sceniche rivolte verso la platea rivelano quello che già serpeggiava: la signora querula e inopportuna è la madre dell’attrice in scena. Il dialogo immaginario diventa reale e rivela che, invitata dalla figlia alla prima del suo nuovo spettacolo, la donna è lì, ignara dei contenuti trattati.
Stretta nel suo tailleurino elegante profilato di perline, la borsetta serrata sul grembo, gli occhi bassi, la bocca tirata, continua a rimanere seduta tra il pubblico; la postura chiusa e contratta esprime il suo controllo, la sua volontà di non reagire alle provocazioni della figlia che dal palcoscenico continua a chiamarla pesantemente in causa, deridendola, quasi sbeffeggiandola.

Gli sguardi degli spettatori fanno la spola tra la scena e il posto occupato dalla donna che adesso interviene con toni sempre meno sommessi, interagendo apertamente con le parole che arrivano dalla scena, masticando alcune frasi di discolpa, accampando qualche giustificazione alle accuse della figlia. Finché, al culmine di un serrato e drammatico scontro, si alza e, facendosi largo tra il pubblico, fa irruzione nel palcoscenico dove, con voce tonante, dà finalmente sfogo alle sue ragioni, grida la sua verità di donna umiliata dall’abbandono, che ha visto in un sol colpo demoliti lo status di moglie, la famiglia e il ruolo materno – come se, perdendo il marito, avesse perso anche la capacità di essere madre.

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Ph Lucio Ganci

Ma la figlia non sembra scomporsi. Incapace di mettersi anche per un attimo nei suoi panni, con spietata veemenza infierisce ancora su di lei, senza alcuna pietās: «Questo non è amore, mamma! Il tuo non è amore!».

In questo drammatico rivelarsi davanti agli altri, entrambe sembrano chiamare in causa gli spettatori come testimoni, come alleati per fronteggiare una relazione che nel privato si è come cristallizzata, incancrenita.
Ma la presenza del pubblico non scioglie l’impasse, anzi sembra sancire definitivamente l’impossibilità di quel rapporto, il fallimento di un confronto fuori contesto, troppo avvelenato, troppo tardivo, diventato un estremo redde rationem. Non c’è alcuna possibilità di riparare il danno consumato in tanti anni di parole non dette, di gesti trattenuti, di sentimenti inespressi.

In uno scatto di rabbiosa capitolazione, la madre abbandona il palcoscenico, lascia con impeto la sala ed esce sbattendo rumorosamente il portone.
La sua uscita di scena, il suo sottrarsi alla drammatica resa dei conti, ha sulla ragazza l’effetto immediato di fare implodere la collera che l’ha dominata fino a quel momento, come se quella rabbia che lei ha rivolto contro la madre traesse forza dalla sua stessa presenza. Un lieve accasciarsi del corpo, un trascolorare del viso, uno spegnersi dell’aria di sfida finora stampata in volto, fanno riaffiorare l’espressione di paura e di fragilità che la ballata iniziale evocava.

Lo spettacolo è finito. Lo spettatore – quasi terzo personaggio della pièce – sembra indugiare, rimanere ancora dentro la finzione drammaturgica. Chiamato in causa in modo così ravvicinato – testimone del cannibalesco gioco di ruolo tra madre e figlia, della loro incapacità di andare oltre le accuse che sembrano solo paraventi per nascondere paure e fragilità, dello stallo che impedisce il fluire dei sentimenti profondi che le legano – sente quella vicenda paradigma di una storia più grande, la storia di un’umanità in preda al medesimo magmatico coacervo di passioni e alle medesime dinamiche distruttive.

A differenza della sovrabbondanza di certi esordi e a dispetto delle “ingombranti” suggestioni letterarie con il loro portato concettuale e stilistico, Filippo Luna riesce a realizzare una messinscena stilizzata e formalmente essenziale nella quale gli elementi della costruzione drammaturgica metateatrale – la dissoluzione della funzione scenica, lo sconfinamento di vita e teatro, la discesa della persona nel personaggio e viceversa, il coinvolgimento dello spettatore – vengono sviluppati in una versione contemporanea, senza quegli artifici e quei compiacimenti che hanno caratterizzato in passato questo tipo di allestimento.

Nel suo quasi one-woman-show, Chiara Muscato riesce a rendere le diverse gradazioni del suo personaggio: spavalda e sicura di sé, all’inizio; scomposta e rabbiosa nel suo atto di accusa verso la madre; dura e insensibile nel momento del confronto più diretto con lei; fragile e insicura alla fine. Manuela Ventura, poi, con la sua recitazione naturalistica, da teatro-verità, rende così autentica e credibile la sua interpretazione da lasciare fino all’ultimo lo spettatore disorientato tra persona e personaggio, tra recitazione e vita.
Icastica, infine, la ballata di Serena Ganci, che in una funzione di prologo, disegna la filigrana emotiva che attraversa la narrazione drammaturgica e ne fornisce una chiave di lettura.

 

LA PRIMA

testo di Annalisa Bianchini
regia Filippo Luna
con Chiara Muscato e Manuela Ventura
musiche di Serena Ganci con Gabrio Bevilacqua e Fabrizio Brusca
luci Vittorio Di Matteo
consulenza scenografica e costumi Dora Argento
Prodotto dall’Associazione Culturale Santa Briganti
Patrocinato dal Comune di Palermo e dall’Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo