MARTINA VULLO | Prendere un testo ottocentesco per mostrarne l’estrema attualità, trasformare una mela in un pianeta e costruire uno gnomo con un cappotto giallo e due stivali bianchi, sorretti da attori ben visibili. C’è questo ed altro nelle Operette Morali andate in scena dal 7 al 9 Dicembre presso il teatro della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Qui le parole del poeta di Recanati hanno preso vita grazie alla voce e ai corpi degli attori ERT che, già da diversi anni, collaborano con la fondazione modenese nella costruzione di spettacoli che indagano il rapporto fra Filosofia e Teatro.
Una scenografia essenziale: diversi bauli disposti nello spazio a fare da base di appoggio o da espediente per la comparsa e scomparsa degli attori e uno schermo in fondo, a veicolare immagini che sono collante fra le riflessioni leopardiane e la più stretta attualità.
Espedienti scenici come droni vaganti, canne da pesca immaginarie e un sapiente uso della gestualità per dare ritmo al testo. Svariati intarsi: teatrali (come l’iniziale citazione da Sogno di Strindberg), musicali (con Filippo Zattini al violino e qualche volta Simone Tangolo alla voce, in un repertorio che va da Rossini a Bellini, con tanto di Casta Diva sul finale) e poetici (La sera del dì di festa declamata da Diana Manea).
Una soluzione scenica capace di alleggerire e al contempo valorizzare lo spessore delle operette rappresentate: Dialogo di Tristano e di un amico, Dialogo di Ercole e Atlante, Dialogo della Moda e della Morte, Cantico del gallo silvestre, Proposta di premi fatta dall’accademia dei sillografi, Dialogo di un folletto e di uno gnomo e Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere.
In scena Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo e Franca Penone, con la quale abbiamo fatto una chiacchierata, per parlare dello spettacolo e non solo.
MV: Perché portare in scena o andare a vedere oggi uno spettacolo sulle Operette Morali?
FP: Beh.. Leopardi oggi sarebbe una rock star. Potrebbe essere paragonato a Kurt Cobain. Non si può prescindere, in particolare nella nostra cultura italiana, da questa pietra miliare di incompreso, non amato, uomo di enorme cultura e favolosa capacità di penetrazione dei problemi umani. È un filosofo.
E ha una capacità, anche ironica e leggera, di attraversare tematiche profondissime che insegnano tanto.
Poi anche per un discorso relativo alla raffinatezza del linguaggio e in particolare della prosa, per quanto Leopardi sia più studiato come poeta.
La sua prosa è rap, complessa, divertente, si muove.
Il modo in cui sono scritte le Operette produce un effetto bizzarro: leggendole a bassa voce non ci si capisce tanto, ma una volta messe in voce prendono vita. È come se Leopardi stesse trascrivendo da un teatro enorme che gli si svolgeva nell’immaginazione. In questo senso è un grandissimo drammaturgo. Scrive delle pièce.
MV: In che modo tu e i tuoi colleghi vi siete misurati con questa scrittura?
FP: Con grade divertimento proprio per via della sua particolarità. I ragionamenti che sviluppa contengono così tante subordinate da sembrare dei trattati di Wittgenstein: è scritto con un’esattezza apollinea.
Dice esattamente il millimetro di verità che intende descrivere ed è impossibile spostarlo. Muovendo un aggettivo crolla tutto e per questa ragione è un testo che richiede una memoria ferocemente salda.
Il primo approccio è stato quello di entrare nel suo immaginario dissodando la lingua – cioè andando a ricostruire gli snodi del pensiero – per poi alleggerirla.
La dinamica interna estremamente mossa dà poi occasione a un attore di attraversare in una stessa frase un sacco di colori, di sentimenti, di cambi di direzione ed è qualcosa che effettivamente lo spinge a divertirsi.
MV: Oltretutto non è la prima volta che ti misuri con questo testo. Nel 2011 lo avevi già affrontato con la regia di Mario Martone. Come sono state le due esperienze a confronto?
FP: Nel caso di Martone c’erano una committenza e un intento differenti rispetto al lavoro fatto con ERT. Mario stava lavorando al film Il giovane favoloso e Il suo modo di approcciarsi alle Operette Morali era quello di riscoperta di un personaggio rock.
Effettivamente il suo Leopardi è bellissimo: è sensibile, intelligente. È un ragazzo in fuga.
Leggere i testi era anche un modo di andare alla ricerca di questo Giacomo.
Ricordo per esempio che con Mario si parlava dei giochi che poteva inventare Leopardi per i suoi fratelli. Diceva: “ma lo immaginate questo, a Recanati, chiuso in una biblioteca sterminata con un padre atroce?”.
Leopardi inoltre avrà scritto il nucleo centrale delle Operette Morali a 25-26 anni, età in cui nell’Ottocento si era indubbiamente già adulti; ma solo da poco lui aveva raggiunto una certa indipendenza. Per cui era incredibile quel poter giocare coi mondi, facendo però un riflessione filosofica altissima dell’indifferenza del cosmo nei confronti della piccolezza della vita umana e, d’altra parte, della grandezza dei sentimenti di scoramento dell’uomo di fronte alla natura.
Lì per lì, poi, c’era anche un vago intento enciclopedico: il primissimo tentativo di Mario fu addirittura di leggerle tutte.
Diversamente, nel discorso che hanno elaborato insieme Claudio Longhi e Carlo Altini, l’idea di base era di attraversare alcune Operette Morali molto differenti fra loro, alcune delle quali si occupano ad esempio di mitologia – si pensi al Dialogo di Ercole e Atlante che si confrontano con questa bizzarra palletta che è la terra (per la religione arcaica, non solo l’uomo, ma la terra altro non è che un granello di polvere, no?) – muovendosi da una visione metafisica altra che dà uno sguardo un po’ distratto alla terra, per arrivare alla definizione dell’esistenza umana. In un percorso che passa ad esempio attraverso Il dialogo di un folletto e di uno gnomo…
MV: Che è qualcosa di scenicamente meraviglioso…
FP: Meraviglioso… se ci pensi Leopardi ha scritto “alla Tolkien” molto prima di Tolkien stesso… un genio!
Claudio poi è geniale nell’alleggerire e nel trovare il gioco della scena. Nel rendere evidente anche quello che è il teatro: un luogo ludico dove una mela diventa un pianeta e dove le mani di Diana in un impermeabile diventano il corpo dello gnomo.
MV: … E con meccanismi che ritornano. È sempre tutto molto brechtiano: i cartelloni, i volantini distribuiti, i personaggi sui palchetti e in platea sono delle costanti.
Ci sono state delle operette a cui ti sei legata in particolare? E, tornando al confronto fra Martone e Longhi, la loro diversità di visioni e di regia ha influito nella diversità del lavoro attoriale?
FP: Con Martone facevamo Il dialogo della terra e della luna in cui Barbara Valmorin interpretava la terra e io la luna. Ciò che Mario aveva creato, anche grazie alle geniali scenografie e ai costumi di Mimmo Palladino, che aveva allestito per noi delle enormi teste illuminate, era qualcosa di cosmico. Era un’operetta molto bella.
Qui, invece, mi sono molto divertita insieme a Diana mettendo in scena Il dialogo della Moda e della Morte. Chiaramente si tratta di cose differenti affrontate in modo completamente diverso: sono registi che affrontano lo stesso autore partendo dalle proprie formazioni culturali, curiosità e poetiche molto distanti.
C’è poi da dire che con Claudio ho fatto molti spettacoli. Anche anni fa.
Lo conosco da quando era il braccio destro di Ronconi, per il quale pure ho lavorato per molto tempo. Quindi con lui c’è una consuetudine a lavorare insieme, ad avere anche un immaginario artistico simile, che ci viene da un grande maestro comune e da una cultura che in qualche modo abbiamo sviluppato insieme. Ci capiamo.
Claudio poi lavora con un nucleo di attori – in cui io sono entrata di recente con La Classe Operaia – che a loro volta lo conoscono benissimo e per questa ragione, quando lui inizia a fare le sue costruzioni giocose, gli attori si lanciano senza nessun tipo di problema. Questo è il valore aggiunto che si può avere lavorando con uno stesso maestro per tanto tempo.
Longhi, tu dici giustamente, è brechtiano. Ti porta a fare delle cose stranianti, tant’è che quasi in tutte le operette c’era il gioco fuori-dentro in cui a un certo punto finisce il gioco e si rompe la magia.
Le sue creazioni sono frutto della libertà enorme e di una grandissima qualità di fiducia reciproca che Claudio dà agli attori.
Lui lavora con te. Dà delle coordinate anche molto precise, anche abbastanza dure. Però una volta che le possiedi, hai libertà creativa e questo dà slancio al lavoro, fa sentire gli attori valorizzati. È molto bello lavorare con lui.
MV: Avendo lavorato sia con Ronconi che con Longhi si potrebbe dire che tu sia in qualche modo la testimone di un passaggio fra maestro e allievo. Somiglianze e differenze nel loro approccio alla regia?
FP: Penso che la grandezza, sia del maestro che dell’allievo, sia stata quella di avere molto chiare le proprie necessità e le proprie poetiche.
Una cosa enorme che Ronconi ha trasmesso a tutti noi – a me come attrice ma, a Claudio come regista – è il rigore. La capacità di leggere i testi, di tirarne fuori dei sotto-testi talora non molto evidenti e di renderli chiari.
Poi chiaramente Ronconi ha avuto mezzo secolo di possibilità di sviluppare una propria poetica registica, che rimetteva in gioco spesso. Aveva una passione per le macchine sceniche, per le scenografie importanti, per quanto poi ci siano stati spettacoli meravigliosi in cui la scenografia non aveva la stessa importanza. Penso a Verso Peer Gynt che è stato una pietra miliare nella quale lo spazio era una scatola nera (per quanto poi la scatola nera fosse in realtà costruita su un teatro al contrario e cioè su una platea di un teatro invece che sul palco). A lui piaceva davvero tanto indagare i testi, renderli tridimensionali, farne dei pop-up imprevedibili.
Claudio a questa capacità di leggere i testi aggiunge tutta la sua formazione culturale determinata.
Diciamo che certamente Ronconi è un suo maestro però altrettanto lo sono Sanguineti o Brecht. È un allievo di se stesso. Pesca da così tanti filoni culturali che riconoscerlo solo in una genia ronconiana sarebbe riduttivo.
MV: Indubbiamente. C’è da aggiungere che la collaborazione con Longhi trova ulteriore forma anche nel tuo ruolo di docente all’interno della scuola Iolanda Gazzero. Per concludere, qual è, se c’è, lo specifico di questa scuola e come vivi l’esperienza dell’insegnamento?
FP: I ragazzi della scuola li ho addirittura selezionati. Ho fatto la parte più cospicua di docenza tre anni fa, al loro primo anno. Li vedo crescere, cambiare, maturare.
È incredibile avere la possibilità di seguire ragazzi estremamente dotati e in gamba. Ragazzi ai quali Claudio chiede una grande apertura. Perché gli forma la testa: non li forma come attori, ma come operatori culturali a tutto campo.
Non è un caso che la scuola preveda lezioni di filosofia, di inglese e che prevederà a breve degli stage all’estero. Ai ragazzi si tenta di dare una formazione culturale di ampio respiro, che abbia un orizzonte aperto sull’Europa, sul mondo e sulla cultura. Claudio stesso, arrivando da una docenza universitaria apre il proprio bagaglio culturale. Questa impronta è molto specifica della scuola.
Per me, poi, insegnare è una cosa strana perché si impara tantissimo. C’è una freschezza nello sperimentarsi che i ragazzi donano con grande generosità.
È stata una bellissima esperienza.
LE OPERETTE MORALI
da Giacomo Leopardi
mise en space
testi scelti da Carlo Altini
Drammaturgia collettiva con Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo
musiche a cura di Filippo Zattini
immagini a cura di Riccardo Frati
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Collegio San Carlo di Modena
Con il contributo BPER banca
Collegio San Carlo, Modena
9 Dicembre 2018.