RENZO FRANCABANDERA | Il Miles gloriosus di Plauto che porta la regia di Marinella Anaclerio è frutto di un percorso iniziato oltre un decennio fa, nel 2006, fa quando la regista di quella che oggi è La Compagnia del Sole (nome del suo sodalizio artistico, oltre che di vita, con l’attore Flavio Albanese e con un gruppo di altri attori divenuti nel tempo compagnia stabile) era direttrice della Scuola del Teatro delle Marche. Fu lì che in quell’anno gli allievi della scuola poterono confrontarsi con il testo del celebre autore latino, come racconta una delle persone che, in funzione di supporto esegetico e filologico, furono parte di quel progetto, ovvero Roberto M. Danese in Plauto sul palcoscenico della contemporaneità. Appunti per una ‘palliata’ italiana: ‘Asinaria’ e ‘Miles gloriosus’ (paper pubblicato poi alcuni anni dopo su PAN. Rivista di filologia latina. 3, n.s. 2014).
Alle pagine 156 e seguenti di quel lavoro (che è possibile leggere integralmente a questo link) vengono descritti con minuzia di dettagli una serie di accorgimenti scenici e di scelte registiche nate proprio dall’analisi critica non solo dei caratteri ma della struttura stessa dell’opera plautina.
I temi che in quelle pagine e che nell’allestimento riverberano riguardano le questioni profonde del testo o della sua eredità nel letterario. La sintesi estrema e un po’ brutale delle dieci pagine che in quello scritto vengono dedicate all’allestimento sta nell’evidenza della cesura compositiva fra la prima e la seconda parte della commedia, che sono sostanzialmente speculari: la prima, con il raggiro compiuto ai danni del servo del soldato sbruffone, il maligno ma sprovveduto Artotrogo (Dino Parrotta), è anticipazione del seconda e più complessa dove la vittima è il tronfio Pirgopolinice (Claudio Castrogiovanni).
Proprio il fatto che nella prima parte il protagonista scompaia dalla scena dopo il prologo, ha costretto Plauto (e anche la regista) a immaginare una costruzione che anticipasse tempi comici e creazioni simboliche tali da far rimanere il protagonista e la sua maschera nella mente dello spettatore; una costruzione, quella scelta dalla regista, giocata sull’intreccio con la lirica e con l’aria Nessun dorma dalla Turandot di Puccini.
In realtà ci sono anche altre piccole modifiche al testo che riallacciano il discorso ironico con la lirica, riabbracciando, in una gustosa citazione sonora, il Don Giovanni in una battuta che riprende il celebre catalogo dell’aria Madamina con quello delle conquiste del Miles.
La vicenda del Miles gloriosus, come si ricorderà, ruota poi attorno al rapimento portato a termine da costui della bella Filocomasio (Patrizia Labianca) promessa sposa di Pleusicle (Tony Marzolla). La donna viene tradotta prigioniera da Atene a Efeso, ma il ricco (anche se ingenuo) promesso sposo, con la complicità di altre due figure archetipiche – il servo astuto Palestrione (Flavio Albanese) e il vecchio nobile aiutante Periplectomeno (Luigi Moretti) – riporterà la donna a casa dopo aver messo in piedi un raggiro crudele ai danni dello sbruffone, cui viene data una dura lezione.
Il raggiro di tono farsesco inventato da Plauto sta nell’immaginare l’esistenza di una sorella gemella di Filocomasio, e di una finta moglie del vecchio nobile (Antonella Carone) che si fingerà poi innamorata di Pirgopolinice per attirarlo nella casa dove verrà caricato di botte tanto da lasciarlo tramortito per terra in un finale che la Anaclerio studia in modo da restituire circolarità simbolica al carattere, che non muore mai.
E così tanto non muore, che effettivamente nell’epoca del teatro dei caratteri, quello della commedia dell’arte, nascerà la figura del Capitano, ispirata appunto al Pirgopolinice del Miles gloriosus di Plauto e al Trasone dall’Eunuco di Terenzio; un personaggio che si colorò di due sfaccettature: quella comica dello sbruffone e vantone che veniva di solito raggirato, e quella invece un po’ più malinconica, che esaltava più la solitudine e in fondo il terrore di dover affrontare i duelli di cui a parole si dava già per vincitore.
Francesco Andreini, di lì a poco, costruirà la figura di Capitan Spaventa sulla seconda delle sfumature caratteristiche mentre successivamente Silvio Fiorillo con Capitan Matamoros – maschera del soldato spagnolo inviso al tempo in Italia – ricalcherà il borioso e spaccone protagonista plautino. Arriveranno, a seguire, Capitan Giangurgolo, Capitan Corazza, Capitan Cardone, Rinoceronte, Terremoto, Spezzaferro, Spaccamonti, Capitan Rodomonte, fino a Capitan Fracassa.
Di fatto tuttavia, come ancora ricorda sempre Danese e poi ancora la Anaclerio in alcune note di regia passate, finanche in alcune farse liriche rossiniane (come l’Italiana in Algeri che la regista diresse sempre negli anni in cui nacque l’allestimento del Miles) questa figura vive sempre: è centrale nello schema allegorico della commedia.
La scenografia pare quasi suggerire un legame con la commedia cinematografica recente, come gli spaghetti western, raffigurando Efeso come un fortino western, sebbene questa ricostruzione alluda probabilmente all’origine del nome Pirgopolinice, un composto di tre parole greche, che significa “espugnatore di fortezze e città” (da pyrgos, “fortezza”, polis, “città”, e nike, “vittoria”.
Quindi quest’opera plautina, nell’interpretazione dello scenografo Pino Pipoli, sarebbe nient’altro che la fortezza di Pirgopolinice, espougnatore di fortezze, che a sua volta viene espugnata, come il bel gioco luci del finale (opera di Mauro Marasà) racconta, con i vincitori dentro a festeggiare e le luci (ma soprattutto i bui) che si proiettano sullo sconfitto.
Cosa è cambiato dal 2006 al 2018. In parte la squadra: c’erano già Albanese e Moretti, insieme a Oscar De Summa che non ha potuto lavorare a questa ripresa. Qui, dopo alcune ricerche e diverse interpretazioni, il cast del Miles pare essere stato trovato attorno alla boria assurda e per taluni versi fisiognomica di Claudio Castrogiovanni, con la sua mascella volitiva e quel sorriso ampio che ne fa naturalmente uno sbruffoncello dongiovannesco.
La Anaclerio vira infatti sulla tinta più ironica fra le due che ha assunto in personaggio nella modernità: la regista ha sempre avuto l’intenzione, quasi filologica come abbiamo detto, di non snaturare la commedia e di mantenerne intatta la meccanica, cercando quel ritmo quasi lirico che la attraversasse, restituendocene in qualche forma l’attualità, o comunque la capacità di dialogare con il presente degli spettatori in sala, della loro società, di questo tempo.
Nella meccanica di scena, la verità è che, sebbene il titolo della commedia rimandi al Miles, gli eroi sono invece come sempre i fautori del raggiro: il Palestrione affidato all’istrione Albanese, abile narratore ma anche pronto all’improvvisazione, e il notevole Periplecòmeno romanesco di Moretti, subdolo e ‘gnorante come solo chi ha conosciuto la romanità indolente può comprendere. In questo carattere c’è un tipo letterario in stile La grande bellezza, che la Anaclerio legge molto bene a nostro avviso, facendo indossare a Moretti la “gambardellezza” in modo assai icastico.
L’equilibrio di questo spettacolo è massimo quando queste due rotelle attorali hanno la stessa grandezza, ovvero, dal mio punto di osservazione critica, quando l’istrionismo resta nella misura, cosa peraltro suggerita dalla logica stessa della commedia, che vede portatore degli eccessi precipuamente il Miles.
Quando i due metronomi di scena funzionano in modo corretto, equivalendosi, si esalta maggiormente il gioco registico fondato sulla squadra che la Anaclerio ha messo in pista, forse la caratteristica percettibilmente più pregevole dell’allestimento, una coralità da cui promana il senso, che diventa ritmo comico, e che arriva infine a essere, proprio in quanto schema collettivo, anche satira sociale.
Ciò che non è gioco di squadra rompe questo delicatissimo equilibrio conclusivo, lasciando la commedia monca della possibilità di quest’ultimo e fondamentale passaggio.
Ecco perché, persino (anzi, vorremmo dire soprattutto) nella commedia, il senso della misura rimane fondamentale. Far ridere resta di gran lunga più complesso che far piangere, come chiunque faccia teatro sa benissimo. Giocano bene la loro partita Stella Addario, Loris Leoci, Antonella Carone, Patrizia Labianca, Tony Marzolla e Dino Parrotta.
Sull’allestimento, l’imponente macchina scenica, pur nei suoi probabili rimandi di senso cui si è fatto cenno, è di gran lunga sotto utilizzata, e alcuni elementi della stessa restano in semplice funzione di eye catching, ma in fin dei conti potrebbe essere ridotta senza sacrifici di senso.
Belli i costumi di Stefania Cempini che giocano fra il surreale e il western, mentre sulle luci si sceglie di non esagerare con la cifra pirotecnica, e questo spiega il motivo per cui venga evitato per gran parte dell’allestimento di cercare ambientazioni emotive ulteriori rispetto a quelle affidate agli attori.
Una scelta compositiva nel senso della misura che, in fin dei conti, si apprezza, portando a compimento un’operazione piana, il cui rischio contrario poteva essere forse quello dell’aggiunta barocca inutile.
Nel complesso un Plauto onesto, divertente, attuale, corale.
IL MILES GLORIOSUS DI PLAUTO
traduzione e regia di Marinella Anaclerio
con Flavio Albanese, Claudio Castrogiovanni, Luigi Moretti, Stella Addario, Antonella Carone, Patrizia Labianca, Loris Leoci, Tony Marzolla, Dino Parrotta
scena Pino Pipoli
costumi Stefania Cempini
disegno luci Mauro Marasà
assistente alla regia Antonella Ruggiero
produzione Compagnia del Sole
Personaggi e Interpreti
Pirgopolinìce > Claudio Castrogiovanni
Artotrògo > Loris Leoci
Palestrione > Flavio Albanese
Periplecòmeno > Luigi Moretti
Scèledro > Dino Parrotta
Filocomasio > Patrizia Labianca
Plèusicle > Tony Marzolla
Lurcione > Loris Leoci
Acroteleuzio > Antonella Carone
Milfidippa > Stella Addario
Carione > Loris Leoci
Uno schiavetto > Stella Addario