ANTONIO CRETELLA | Nei romanzi di Mark Twain e di Dickens veniva descritto il mondo disumanizzato della recente Rivoluzione Industriale: le città improvvisamente sfigurate dall’apparire dei complessi industriali, l’aria annerita dai fumi, il tempo, prima scandito dalle campane delle chiese, segnato ora dal suono dei turni di lavoro; le periferie trasformate in spettrali dormitori per i lavoratori, città fantasma animate solo dalle figure grigie dei salariati di ritorno a notte fonda nei loro miseri tuguri.
La povertà non poteva esistere o, quanto meno, non doveva esibirsi: esistevano leggi apposite contro l’accattonaggio che punivano severamente chi chiedeva l’elemosina lungo le strade lerciando con la propria presenza il decoro pubblico. Essere poveri nell’Inghilterra vittoriana o negli Stati Uniti era al tempo stesso un crimine e un peccato, secondo una mentalità pervasa da un’etica puritana per la quale la povertà è il segno tangibile di una punizione divina, mentre il successo negli affari era prova di una predilezione agli occhi del Signore.
Più indietro, nel corso del Cinquecento e del Seicento, i potenti delle grandi signorie erano soliti finanziare l’apertura di ospedali pubblici per indigenti, una sorta di case d’accoglienza. Il giorno dell’inaugurazione, i poveri venivano invitati a un enorme banchetto, lavati e vestiti, ma sarebbe stato l’unica festa della loro vita: venivano poi rinchiusi negli ospizi, sottratti alla vista della gente per bene e lasciati a un destino di stenti. L’importante era pulire le strade dagli scarti umani.
Perché dunque stupirsi se un vicesindaco triestino si vanta di aver buttato via le coperte a un senzatetto? L’accanimento contro il povero e il bisogno di una catartica cosmesi urbana che li metta al bando sono insiti nella storia europea ben prima che il capitalismo ne esasperasse la virulenza in una delle nostre tipiche aporie culturali: elogio della povertà come ricchezza spirituale, ma disgusto verso di essa in quanto prova delle enormi disuguaglianze di cui la società capitalistica si rende colpevole e le cui responsabilità, come in uno stupro, vengono addossate alle vittime.
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