MARIA FRANCESCA GERMANO | Ancora pochi giorni per visitare la prima retrospettiva di Marina Abramović in Italia, fino al 20 gennaio a Palazzo Strozzi, Firenze. The Cleaner il titolo della vasta esposizione che ospita oltre cento opere distribuite in un percorso documentale, interattivo e performativo attraverso una selezione di frammenti della vita artistica di colei che ha contribuito a trasformare in maniera irreversibile il pensiero sull’arte.
Sul prospetto esterno dello storico palazzo, il manifesto in cui l’artista, guardandoci ipnoticamente negli occhi, pone l’indice della mano destra sulla fiamma di una candela accesa sostenuta dall’altra mano, ci seduce con la promessa di una esperienza catartica.
La fila alla biglietteria mostra un pubblico vociante, energico ma composto, di giovanissimi “irretiti”, forse attratti dalle logiche di interazione digitale con le opere. Uno di loro, lo rivedremo perso nel dedalo delle tante, forse troppe, cose da vedere, ad invocare sardonicamente la freccia IKEA per percorsi obbligati.
La voce di Marina Abramović ci accompagna tra le varie sezioni grazie ad utilissime audioguide di ultima generazione.
La mostra si estende tra il piano interrato detto “Strozzina” e il primo piano, “Nobile”; nelle sale della Strozzina, prive di suggestioni luminescenti, la luce, quasi piatta, mimetizza il visitatore e anima fascinosamente le opere esposte. Tra tutte, i video, le installazioni, gli oggetti di “scena”, dedicati alle più celebri performance, ci trasmettono emotivamente tutta la potenza originale dell’approccio artistico della Abramović.
In Rhythm 10, la vediamo far saettare coltelli affilati tra le dita delle mani sempre più velocemente fino a ferirsi, registrando l’audio dei colpi in una reiterazione esplorativa del suono che ne deriva.
https://www.youtube.com/watch?v=0_s9OF91s5g
In Rhythm 0, per circa sei ore si lascia umiliare, seviziare dai suoi spettatori mettendoli di fronte ai loro istinti più bestiali. Si consegna a loro come oggetto inerte, lasciando a disposizione su un tavolo settanta oggetti di ogni tipo che potranno essere usati su di lei impunemente. La toccano, anche intimamente, la spogliano, la feriscono, le succhiano il sangue dal collo. Sarà il suo stesso pubblico a salvarla da un uomo che le mette una pistola carica in mano e gliela punta alla gola. Intorno a noi percepiamo una commozione profonda, qualcuno piange . Su di un tavolo, gli oggetti usati in quella performance, sono esposti come liturgiche reliquie quasi a volerci convincere: “anche tu saresti stato capace di usarli”.
Nella sala che, tramite video a due canali e simboli scenici, ci proietta nella disturbante performance Lips of Thomas, una bella signora lascia trasparire inorridita tutta la sua disapprovazione.
Uscendo dalla Strozzina, turbati, annichiliti, emozionati dalle impressioni violente ed inquietanti che la Abramović, incarnando l’arte nel proprio corpo, usato come materiale significante, ha saputo oggi, qui, in forma museale, abilmente imporci, abbiamo quasi la percezione che le sue opere siano state pensate e magistralmente documentate già all’origine come riproduzione simbolica futura di arte munifica e stoica.
Continuiamo il nostro itinerario performativo salendo al piano Nobile; qui la tensione si sgretola, l’emozione si assopisce, il chiacchiericcio distrae, la luce restituisce la presenza dello spettatore; la re-performance della celebre Imponderabilia, interpretata da due giovani attori nudi attraverso i cui corpi, si può optare di procedere, toglie energia anche ai filmati e alle foto originali. In tono serioso, la signorina dal nero tailleur, provocando la facile ilarità dei giovani presenti, ci esorta a non zoomare sull’intimità dei performer.
Le sale del piano Nobile espongono i lavori nati dalla lunga relazione con Ulay con cui la Abramović condividerà vita e arte in un amore folle. Tra le opere visibili in video c’è la serie Relation; il loro addio si condenserà in un’ultima performance insieme, Great Wall Walk, che viene documentata in un film intitolato The Lovers, in cui i due, dopo aver percorso duemilacinquecento chilometri a piedi, si vengono incontro sulla Grande Muraglia Cinese, si abbracciano e si dicono addio. In sala, due ragazzi, che condividono gli auricolari dell’audioguida, tenendosi la mano, si baciano.
Nella zona dedicata alla performance Balcan Baroque, che è valsa alla Abramović il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, l’intensità ritrovata davanti all’impatto sconvolgente del video in cui l’artista per quattro giorni, in un fetore insopportabile, frega con delle spazzole il sangue imputridito attaccato ad ossa di bovino fresche nel tentativo di ripulirle, viene fastidiosamente contagiata dalla voce stridula della signorina del servizio d’ordine che, in tono minaccioso, sta intimando qualcuno a non toccare i reperti.
Nella sala Energy della sezione conclusiva, il pubblico vive la visione “new age” dell’artista, in forma ludica, interagendo con oggetti transazionali di quarzo e vari minerali, recuperati nei viaggi mistici in giro per il mondo, per catturarne e sentirne l’energia. In totale assenza di particolari flussi molecolari e connessioni sensoriali, calzare a piedi nudi le due scarpe in pesante ametista , Shoes for Departure, è stato un po’ come umettarsi con l’acqua stantìa della plasticosa bottiglietta-madonnina di Lourdes della nonna.
Nella parte finale del nostro percorso, la videoproiezione delle riprese fatte al Moma della performance The Artist is present fanno da sfondo ad un tavolo con due sedie vuote su cui a turno gli astanti si siedono scambiandosi il nulla e scippando il pathos che la contemplazione del solo video avrebbe forse restituito.
L’esperienza catartica ce la promettono anche al bar nel cortile del Palazzo, facendoci addentare un toast con caffè per soli 15 euro.
Altrimenti si può provare a darsi il coltello o la forchetta tra le dita della mano.
Gratis.
Marina Abramović
The Cleaner
ORGANIZZATA DA: Fondazione Palazzo Strozzi
A CURA DI: Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, e Susanne Kleine, Bundeskunsthalle Bonn