MATTEO BRIGHENTI | La gioventù è una stanza vuota e fredda quando viene smarrito ogni legame con il mondo esterno. Allora il sole illumina, ma non rischiara, accoglie, ma non riscalda. È soltanto una luce alla finestra, che dà sulle sorti degli altri. Magnifiche e progressive unicamente per loro.
Quella luce nella casa dei Cani morti del norvegese Jon Fosse, testo inedito adattato e diretto dal giovane regista Carmelo Alù, è un faro da 5000 watt su uno stativo ad altezza uomo. L’intera realtà è teatro, il palcoscenico è il riflesso del fuori, aperto e lontano, a cui si guarda con ansia, rabbia, speranza. Tanto più che, in gran parte, è inconoscibile.
Il legame perso dal ragazzo protagonista, che vive con la madre in un piccolo villaggio sui fiordi, è quello con il suo cane del cuore. La ciotola giace stracolma di croccantini ai piedi della piantana. Oppure l’animale è scappato da sé. Comunque non c’è. Scomparso. Ma ben presente in tutti i discorsi, le domande, le risposte o i ricordi di una famiglia che si ritrova attorno a un tavolo e tre sedie scarne. Come a una veglia per uno di loro, un parente.
L’aria è rarefatta, l’ossigeno fatica a entrare nei polmoni. È per via del clima apatico e glaciale che Alù costruisce attraverso rapporti ormai esangui. Parlare del cane (non ha nome) serve ai personaggi – Alessandra Bedino, Caterina Fornaciai, Emanuele Linfatti, Domenico Macrì, Daniele Paoloni – per scavare nel passato di madre, figlia, amico, figlio, cognato. Un tempo che non hanno condiviso e che ora cercano di capire, colmare, superare. Goffamente, certo, perché in fondo aspettano che le cose si risolvano da sole, mentre loro restano fermi, immobili. Ciò che si dicono rimbalza addosso.
La situazione di Cani morti è quotidiana ma un raffreddamento simile la rende disumana. Nessuno può aiutare, fare nulla per nessuno. Più ci provano e meno ci riescono. L’impotenza è il dettato ripetitivo della scena, che oscilla tra realismo, assurdo e non-senso. Vi è poca o punta traccia delle intenzioni con cui Carmelo Alù, diplomato in regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, ha vinto l’edizione 2018 (la prima di tre) del Progetto di avviamento al lavoro Davanti al pubblico: «dialoghi concreti e improntati a una autoironia dei protagonisti che li mantenga sempre vivi e umani»; «[un progetto di messinscena che punti] principalmente sulla bellezza del racconto e sulla tensione continua fra i personaggi, piena di scatti “buffi” e “ridicoli”».
Il processo produttivo dello spettacolo, che ha debuttato il dicembre scorso in prima nazionale al Teatro Magnolfi di Prato e andrà in tournée nel circuito della Fondazione Toscana Spettacolo, ha previsto, d’estate, due residenze artistiche a Castiglioncello e a Sansepolcro, oltre a un periodo di prove nella città laniera e a due anteprime/studi ai festival Inequilibrio e Kilowatt. Del resto, il Comitato scientifico del Progetto è composto da Patrizia Coletta (direttrice della Fondazione Toscana Spettacolo), Fabio Masi (direttore di Armunia/Festival Inequilibrio), Luca Ricci (direttore di Capo Trave/Kilowatt Festival), Franco D’Ippolito (direttore del Teatro Metastasio) e Massimiliano Civica (consulente artistico del Metastasio).
E proprio a Civica, responsabile anche della direzione artistica di produzione, e al suo minimalismo pare ispirarsi Carmelo Alù. Uno stile registico in sottrazione che, però cita, – senza, all’apparenza, aver davvero appreso e inteso – la lezione di fissità inquieta e immobilità grottesca riconosciuta al modello originale. Tuttavia, il Premio Ubu e docente di Tecniche della recitazione alla “Silvio d’Amico” ne riconosce pubblicamente la stoffa almeno dal 19 dicembre 2017 quando, non ancora consulente al Met (la nomina è di gennaio 2018), scrive su Facebook: «Ieri sera al teatrino Eleonora Duse ho visto il saggio di diploma di Carmela Alù, il Filottete riscritto da Letizia Russo. Ha le stigmati del grande regista, e quindi non avrà vita facile nel teatro italiano. Ma chi la dura può anche vincerla». Pochi mesi prima i due condividono il palco per la lettura scenica di Biglietti agli amici di Pier Vittorio Tondelli. Succede a Garofano Verde, la storica rassegna romana ideata da Rodolfo di Giammarco.
Tutti i caratteri di Cani morti, esemplari di stati emotivi e ruoli familiari, pazientano un attimo sulla soglia del glaciale tinello. Si mostrano frontalmente al pubblico e dopo entrano nello spazio della scena dialogata. Un meccanismo quasi da orologio meccanico, vicino all’impostazione di Un quaderno per l’inverno, che accentua la struttura frammentata del copione, escludendo di renderla viva e vigorosa. I toni, infatti, sono pressappoco sempre gli stessi: apprensivo per la madre, comprensivo per la sorella, sfuggente per l’amico, indolente per il figlio, sovreccitato per il cognato.
Invece che di un salotto o di una cucina, il tavolo simil modernariato che riunisce arrivi e partenze, sconfitte e rivincite, pare adesso quello di un obitorio. Il cane perduto o fuggito adesso si sa che brutta fine ha fatto. Rappresentava il perdurare della necessità del figlio di restare attaccato alle sue radici, all’infanzia, al paese al posto della città (l’età adulta): si è trasformato nel fantasma dell’ossessione di sapere come e perché è morto.
Il precipitare degli eventi è più “vicino” di quanto ci si immagini. Cani morti si evolve così alla stregua di un remake di American Beauty girato in Norvegia da Michael Haneke. Il figlio, che sa che di dover reagire, a un certo punto capisce anche che può farlo. L’apatia cede il posto prima allo sconforto, poi all’azione. Nascosta alla vista, al pari della tragedia greca: oltre il faro, quella finestra che, da apertura sulla vita, diventa una chiusura mortale. È giustizia, secondo le regole non scritte dell’affetto; è vendetta, al contrario, per la legge costituita.
Eppure, nemmeno dei fatti di sangue smuovono, più di tanto, l’intelaiatura costruita da Alù e compagni. È come se tutto, compreso il significato stesso del lavoro, fosse niente. Come se Cani morti si facesse per niente. L’abbraccio tra madre e figlio, che vorrebbe essere liberatorio e risolutivo, arriva fuori tempo massimo sulla autoesclusione del giovane dal mondo. Una prigione che lo tiene al guinzaglio fin dal principio. E che gli sopravvivrà, quanto il collare al suo amato cane.
CANI MORTI
di Jon Fosse
adattamento e regia Carmelo Alù
direzione artistica di produzione Massimiliano Civica
con Alessandra Bedino, Caterina Fornaciai, Emanuele Linfatti, Domenico Macrì, Daniele Paoloni
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
Progetto Davanti al pubblico
Teatro Metastasio di Prato / Fondazione Toscana Spettacolo Onlus / Armunia-Festival Inequilibrio / CapoTrave-Kilowatt Festival
Teatro Magnolfi, Prato
20 dicembre 2018
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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