ANGELA FORTI | Quello di Don Giovanni si è fatto ormai archetipo consolidato nella tradizione, non solo teatrale, che oggi lo porta nel nostro immaginario: nato in Spagna nell’opera El Burlador de Sevilla y Conbidado de piedra (1630) di Tirso de Molina, da Molière a Mozart, da Kierkegaard a Saramago, questo personaggio influenza da secoli, con la molteplicità di interpretazione che vi è insita, la storia del pensiero.
Il seduttore empio e immorale che ne fece Molière torna in scena ancora una volta, per la regia di Valerio Binasco, in Don Giovanni, al Teatro Argentina di Roma fino al 20 gennaio, nel tentativo dichiarato di «recuperare il rapporto con il pubblico”» avvicinandolo con semplicità alla tradizione.
Personaggio controverso, nel Dom Juan ou Le Festin de pierre che Moliere rappresentò nel 1665 (qui il testo integrale) il protagonista non sembra ribellarsi coscientemente a un potere ingiusto, bensì si elegge egli stesso a potente che, tramite il gioco logico, piega le volontà dell’interlocutore. Non è, qui, una religiosità imposta e forzata a generare mostri, ma l’ottusità dell’uomo che non vede la condanna che scrive con le proprie mani.
La sua colpa non è, infatti, una condotta di vita edonista, viziosa: è l’ipocrisia e l’incoerenza. Egli non crede che due più due faccia quattro perché loda l’aritmetica, ma poiché esso è forse l’unico assioma non confutabile, l’unica fede che non esige obblighi, quella “matematica dell’amore” che ha messo in scena Antonio Latella (Don Giovanni, a cenar teco, 2013). Fondamentale, in questo senso, la “confessione” che egli fa a Sganarello nella prima scena del quinto atto (l’unica parte del testo ad essere stata completamente eliminata nella rivisitazione di Binasco): «Ora non c’è più bisogno di vergognarsi: l’ipocrisia è un vizio di moda, e tutti i vizi di moda passano per virtù. […] Quella degli ipocriti è la migliore delle confraternite». Sono parole pesanti come pietre, la goccia che fa traboccare il vaso, che basta a disintegrare, ai nostri occhi, quella che ancora potevamo giudicare ostinata fissazione, sintomo di coerenza.
Funzionale all’analisi del personaggio come ne abbiamo oggi consapevolezza risulta essere un’altra interpretazione, quella dapontiana nell’omonima opera di W.A. Mozart, datata 1787 (qui l’opera e il libretto). Abbiamo, qui, un approfondimento quasi psicanalitico di tutti i personaggi e una radicale rivalutazione della figura femminile, prima tra tutti Donna Elvira – en passant, trent’anni prima, nella stessa Venezia in cui nasce e scrive Lorenzo Da Ponte, calcava per la prima volta il palcoscenico la Mirandolina goldoniana. È Da Ponte il primo a spogliare Don Giovanni dei panni dell’ipocrita sostituendoli, è vero, con quelli del misogino, ma rendendolo persona, uomo e, soprattutto, coerente. Nel finale mozartiano la rinuncia al pentimento non è l’ennesimo capriccio, l’estremo tentativo di beffare la volontà divina, ma la più grande presa di coscienza.
Nella rivisitazione di Binasco la comicità, garantita dall’interpretazione brillante di Gianluca Gobbi (Don Giovanni) e Sergio Romano (Sganarello), è ancora sostenuta da un’attualizzazione ammiccante: la giacca di pelle e gli stivalacci del protagonista lo riconducono a un’immagine stereotipata di una generazione, quella dei metallari, ribelle nei confronti della società; le minigonne e l’atteggiamento svogliato di Carlotta (“Sciarlotta”, Elena Gigliotti) e Maturina (Marta Cortellazzo Wiel), così come il dialetto napoletano che caratterizza il personaggio di Pierotto (reso con eleganza da Lucio De Francesco), rendono accessibile la comprensione dell’opera facendo appello a una cultura di simboli condivisi. In questo senso viene anche forzato il personaggio di Elvira (Giordana Faggiano), che da donna devota e coscienziosa diviene simbolo di falsa fede e lascivia in abiti da suora.
Propria del regista è ancora la cura dei personaggi minori e della comparse: così un anziano fisarmonicista (Ivan Zerbinati) e il suo riverente togliersi il cappello segnano con una nota farsesca i vari cambi di scena, poi sfumati da un velatino verde.
La colonna sonora, che spazia da Vivaldi alle musiche originali di Arturo Annecchino, è delicata ed evocativa nella sua funzione ambientale, così come sono puntuali le luci di Pasquale Mari, sempre pronte a mettere in risalto il dettaglio. Mentre sul fondo una grande luna scruta impassibile le peripezie dei personaggi, una parete di arcate in rosso si staglia a tagliare la scena in due ambiti praticabili. Viene così evocata un’ambientazione classica, mitigata dalle spoglie stanze costruite di volta in volta e dalla statua della Santa Vergine incoronata al neon – particolarmente funzionale al gusto napoletano della seconda parte dello spettacolo.
In questa rivisitazione il protagonista diviene un bambino che, nella propria ingenuità, non vuole crescere e vive nella presunzione che libertà sia poter fare ciò che si vuole senza assumersi la responsabilità della scelta, a scapito, prima di tutto, della propria coerenza. In una giostra di personaggi che affondano nel ridicolo della propria esistenza – per prime le figure femminili, facili e menzognere perfino nei confronti di Dio, cedevoli al fascino dell’uomo non cresciuto; così Sganarello, inesorabile vittima della propria ignoranza e superstizione – il protagonista cerca di essere forzatamente investito di una profondità psicologica che, rimanendo fedeli al testo molieriano, non può aspirare ad avere.
Risultano, infine, confuse la figura sette-ottocentesca del dandy e quella, secentesca, di libertino. Viene, qui, “romanticizzata” quella che in Molière, volgare e dissacrante, mutuata dagli schemi e dai tipi della Comedie, è critica feroce alla società aristocratica della Francia di fine Seicento: viene, insomma, smorzata la crudeltà fondante del testo originale. Nel piegare la tradizione al gusto di un pubblico contemporaneo, Don Giovanni si fa personaggio zoppo che sembra trovare, tra le braccia gelide del commendatore, la pace e non certo la dannazione – l’ultima vera chance di redenzione per il personaggio. Anzi, nell’interpretazione scenica che ne dà Binasco rimane il sospetto che Don Giovanni finisca per pentirsi davvero nel momento in cui solo lui può vedere, finalmente, la statua, la verità, sospesa di fronte ai suoi occhi come pugnale shakespeariano, e accogliere il dono della morte.
DON GIOVANNI
di Molière
regia Valerio Binasco
con (in o. a.) Vittorio Camarota, Fabrizio Contri, Marta Cortellazzo Wiel,
Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi
Fulvio Pepe, Sergio Romano, Ivan Zerbinati
scene Guido Fiorato
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale