RENZO FRANCABANDERA | Andrea Paolucci è una di quelle figure che si incontrano quando si entra nel secondo o nel terzo girone dantesco del teatro. Quando superi la cerchia degli eventi mondani e ti addentri nella selva dei progetti sui territori, quelli che fanno magari poco clamore mediatico, ma che scavano il solco per gettare i semi di quello che di nuovo si potrà fare, nella società, domani.
Con gli altri sodali del Teatro dell’Argine dal 1996 lavora basato all’ITC Teatro, il teatro comunale di San Lazzaro di Savena (BO): nato come aula magna dell’Istituto Tecnico Commerciale, da cui prende il nome, è diventato alla fine degli anni ’80, un punto di riferimento per comici e artisti d’avanguardia. Dopo anni di chiusura il teatro fu riaperto nel 1998, diventando, come ci racconterà Paolucci fra poco scorrendo l’album delle fotografie, la casa della Compagnia Teatro dell’Argine.
Oggi l’ITC è uno tra i teatri più attivi e frequentati del territorio emiliano, con un’offerta culturale che va dal teatro al teatro ragazzi, dai concerti alla danza e alla poesia, prestando particolare attenzione al ruolo di spazio pubblico aperto alla città, concedendo i propri ambienti gratuitamente per più di sessanta giornate l’anno ad associazioni, enti o istituzioni del territorio.
Ho incontrato di recente Andrea sia al Festival dello Spettatore ad Arezzo che alla giornata di studio sul teatro sociale organizzata dal Teatro dei Venti a Modena, e ci eravamo dati un appuntamento mentale. La data dell’appuntamento è arrivata.
Mi ero raccomandato che avesse con sé l’album delle fotografie.
Andrea, negli ultimi giorni siete venuti un po’ alla ribalta per una polemica originata dal decisore pubblico: sono sicuro sia l’ultima cosa che chi fa arte nel sociale vorrebbe, anche perché si dice sempre che non si investe abbastanza nella cultura. Come ti senti di commentare?
Più che altro non si entra mai nel merito. Di questi tempi poi o stai da una parte o dall’altra, poco importa di cosa si parli. Ecco quindi che quando il giornale cittadino, in un articolo sull’approvazione del bilancio comunale, ha titolato a tutta pagina che prendevamo troppi soldi, tutto il paese si è immediatamente agitato. I social si sono subito infiammati e si sono innescate reazioni più o meno feroci, quasi tutte a nostra difesa, a onor del vero.
Ma sul giornale non c’era scritto né quanto prendevamo né per cosa. Chi ci ha attaccato lo ha fatto senza tutti gli elementi in mano e chi ci ha difeso lo ha fatto principalmente per amore.
Per spiegare al mio vicino di casa perché è giusto che parte delle sue tasse finanzino un pezzettino del nostro lavoro ci vuole capacità da parte nostra e voglia d’ascolto da parte sua.
Condizioni non sempre facili da avere.
Credi nella necessità di questa definizione di teatro sociale o no? Dovessi qualificare il tipo di lavoro nell’arte che vi impegna da decenni, come lo chiameresti?
La necessità di definizione, circoscrivendo il campo d’indagine, è più dello studioso che dell’artista. Oggi assistiamo a un moltiplicarsi di pratiche teatrali che inglobano nei propri processi professionisti, non professionisti, persone in stato di fragilità, stranieri. È teatro sociale, partecipato, di comunità? Certo! Ma talvolta è anche teatro e basta, magari capolavoro assoluto. Altre volte è solo un saggio di fine corso. Etichettando si rischia la riduzione a modello di qualcosa che per definizione rinnova continuamente i propri confini. Ma immagino che da qualche parte, se vogliamo capire dove stiamo andando, bisognerà pure iniziare…
Per quello che ci riguarda ciò che facciamo da decenni è figlio di quattro circostanze date: siamo una compagnia di artisti, gestiamo un teatro pubblico, cerchiamo di coinvolgere indistintamente tutti i cittadini nelle nostre follie e nel raggio di un chilometro dalla nostra sede ci sono un ospedale, cinque scuole, due centri d’accoglienza per richiedenti asilo e decine di associazioni di volontariato.
Produzioni, programmazione, progetti per la città e azioni di welfare. Ecco le quattro linee su cui oggi ci identifichiamo. Tutto questo abbiamo cercato di portarlo avanti contemporaneamente, in maniera organica, arricchendo ogni percorso delle suggestioni e delle scoperte degli altri, senza progetti di serie A e di serie B. Abbiamo immaginato un teatro totale, olistico che si prende cura delle persone e cerca di farle stare bene: sedute in platea, dentro un laboratorio, in piazza, in ospedale o in un centro d’accoglienza.
Mi fai vedere una foto di quando avete iniziato? Ce la dai? Se la guardi che impressione ti fa?
Tenerezza e orgoglio. Il nostro primo Shakespeare. Era il ’96 e avevamo più o meno venticinque anni. Senza ancora un teatro dove esibirci, avevamo costruito una O di legno all’interno della palestra comunale. Per tre settimane alternavano La commedia degli errori con un cast solo maschile a La dodicesima notte con un cast tutto femminile. Avevamo già il gusto per i progetti complessi e così facemmo anche un convegno all’Università di Bologna dove invitammo, tra gli altri, Agostino Lombardo e Guido Fink, gli autori delle traduzioni che avevamo scelto, e Luigi Maria Musati, allora Direttore della Silvio D’Amico.
Quanta emozione nell’incontrarli! E quanta bella strada ci sembra d’avere fatto da allora!
Ricordo che una delle mie prime recensioni, ormai quasi dieci anni fa, fu per la replica di un vostro spettacolo a Bergamo: TiegartenStrasse, un grande successo che ancora gira, come tutti voi del resto, che siete impegnati su moltissimi fronti in tutta Italia. Che senso avete dato alla costruzione del progetto negli anni, con questa logica di rete?
Creare rete non vuole solo dire mettere i loghi nei manifesti ma aprire un dialogo con tutto il sistema, tracciando nuove linee di confronto con gli altri teatri, con le scuole, le università, le istituzioni e i centri che, a diverso titolo e a livello tanto locale quanto internazionale, si occupano di educazione, di sociale, di cultura e di intercultura, e con questi identificare strumenti per una nuova idea di formazione, educazione, crescita, ricerca, welfare.
E poi rete vuol dire studiare, rimanere aggiornati, scoprire buone pratiche e condividere risultati e scoperte. Siamo spesso in giro per il mondo a studiare come si fa, e ogni tanto ci invitano a raccontare come facciamo noi. Sono momenti preziosissimi.
Tutto questo dona un nuovo, rinnovato senso al tuo fare teatro.
E ti fa fare anche spettacoli più belli.
Quali sono, secondo te, i pregi e difetti del sistema teatrale italiano oggi?
Come teatranti continuiamo a guardarci l’ombelico senza riuscire a trovare un modo di parlare alla gente. Siamo spesso autoreferenziali, rancorosi e ipocriti. Ma siamo generosi, appassionati, pronti a rinunciare a tutto pur di far scoccare quella scintilla di assoluto che il teatro può creare.
Come sistema siamo vecchi, ancora legati ai borderò e al numero di piazze, alle percentuali di riempimento e ai contributi versati. Finanziamo l’offerta e non investiamo sulla domanda. Circa i pregi, beh… ho finito i caratteri!
Cosa ricordi con più piacere di questi anni passati e cosa hai in mente per quelli futuri?
I legami con le persone che abbiamo incontrato in questi venticinque anni. Alcuni sono diventati come fratelli, altri mogli, mariti. Altri amici. Altri ancora sono semplicemente persone che hanno attraversato la nostra strada e con le quali ci siamo cambiati la vita a vicenda. Il teatro è capace di sconvolgimenti e quando lo fai per venticinque anni in un piccolo prezioso territorio come è il nostro, capisci quanto bellezza, ascolto, partecipazione possano cambiare il mondo.
Il futuro? Un teatro nuovo, con una pista da skateboard sul tetto e i divani al posto delle poltrone.
Una cosa che ti fa essere felice…?
Pensare che ancora siamo qui e che abbiamo ancora una voglia matta di continuare.