ELENA SCOLARI | Siamo ancora alle prese con l’uccisione dei padri. I quali però – indifferenti al bon ton – si ostinano a non morire; dovrebbero ormai essere almeno malconci dopo tutti i tentati omicidi che hanno subìto. Ci dobbiamo arrendere alla loro immortalità oppure non siamo stati abbastanza decisi nello sferrare i colpi?

La compagnia under 35 Oyes è assurta all’attenzione del mondo teatrale italiano con due lavori ispirati al “padre” Čechov (Vania e Io non sono un gabbiano, recensiti da PAC).
I testi dell’autore russo sono popolati di personaggi indolenti, insoddisfatti, sognatori. Le figure cecoviane inciampano spesso in vuoti, d’azione e di scopo, appaiono inconcludenti, anelano ma non ottengono, desiderano ma non vogliono abbastanza ciò che vagheggiano.
La condizione dei personaggi di Schianto non è così lontana dalla loro, in fondo.

Una donna vestita di nero (Francesca Gemma) introduce il pubblico in un’atmosfera che subito appare irreale, un prologo in cui ella si dichiara «la voce che riempie lo spazio», qualcuno che potrà darci quello che cerchiamo. Fidiamoci.
Proviamo a riassumere l’intreccio ma confessiamo che potrebbe esserci sfuggito qualcosa: un tassista incazzoso e razzista con i cinesi (Umberto Terruso), discute con il suo passeggero middle class (Dario Merlini), in un dialogo spruzzato di spirito; la discussione è tanto animata da distrarre il pilota che investe un animale sulla strada: incidente, schianto.
La bestia misteriosa è l’oscura signora del soprannaturale e indossa una  testa d’animale.

Il tassista ha appena scoperto che sarà padre, il passeggero invece ha da poco saputo di essere malato. Contrasto morte/vita?
La scena è scura, troneggia al centro un grande pannello traslucido, un vetro infranto ma non crollato: non vogliamo credere che voglia rappresentare la frammentarietà delle esistenze, siamo spettatori creativi, quindi, lambiccandoci un po’, pensiamo che possa essere una mappa, continuamente interrotta, il terreno accidentato su cui i personaggi si muovono; ci sembra più interessante ma potrebbe essere tutta farina nostra.
A nostro avviso, quello che è davvero frammentato è la scrittura dello spettacolo; la drammaturgia collettiva può essere rischiosa: qui si mescolano piani, visioni, proiezioni, incubi, difficili da correlare per comporre un senso chiaro. Il pubblico potrebbe forse essere facilitato da una maggior chiarezza sui contenuti che gli autori vogliono far emergere.

Mentre i due uomini litigano per decidere se finire l’animale morente, compare sul luogo del sinistro Robin (Fabio Zulli). Robin chi, vi state chiedendo? Ma Robin di Batman! Sì sì. Perché no, del resto? Col suo bravo costumino rosso. Anche lui deve uccidere il padre metaforico Batman, quindi è al suo posto.
Abbiamo visto passare anche un giovane manifestante che arringa (noi?) contro i diritti calpestati della sua generazione.
Perdiamo di vista l’attivista ma anche il filo del plot, arranchiamo nel cercare di dare una collocazione a ciò che accade; alla fine dei conti ci pare che seguire spazialmente e temporalmente i fatti non sia indispensabile, lo spazio della mente non è mappabile, giusto?
La signora in nero torna, che più enigmatica non potrebbe, e canta. Canta molto bene, con voce chiara. Perché lo faccia è meno chiaro ma a questo punto lo spettatore creativo non perde più tempo a cercare di capire, che diamine!


Robin è seriamente agitato (per quanto possa essere serio un supereroe in calzamaglia rossa), deve catturare Joker. Già, e voi non sareste agitati, nei suoi panni? Il fatto è che il personaggio non è nemmeno abbastanza comico da risultare tragico. A lui è affidato un monologo/comizio, poco prima del finale, nel quale si lamenta delle difficoltà della sua generazione (che abbia preso il posto dell’attivista?): non troviamo una posizione, i padri ci opprimono ma non ci considerano, non ci è dato uno spazio, siamo smarriti, non riusciamo a capire qual è il nostro ruolo e siamo sempre pronti a sorbire tutte le balle che ci raccontano
E se ‘sti padri non avessero sempre torto?
Intendiamoci: ognuno ha diritto di denunciare il proprio malcontento, la gerontofilia è una passione che sta scricchiolando da pochi anni, in Italia, ma i figli a un certo punto, con o senza superpoteri, devono sganciarsi. E smettere di sorreggersi freudianamente all’attacco parentale.
Il testo dello spettacolo “dichiara” – anche in modo sentenzioso, talvolta – le debolezze dei personaggi, ognuno sghembo a modo suo, e della società in cui vivono, ma non prova a costruire una reazione. Se vogliamo provare a leggere dentro questo lavoro, non troviamo una risposta a ciò per cui si protesta: la somma finale sembra essere un atteggiamento rinunciatario e improduttivo.

I quattro attori sono bravi, Merlini e Terruso sono decisamente in parte e non sembrano subire il disorientamento che la situazione giustificherebbe, a loro è affidata una chiusa asciutta e volutamente irrisolta. Le luci di Stefano Capra circoscrivono la scena chiudendo l’attenzione sui personaggi, come se non ci fosse relazione con altro, col resto di un mondo (reale) che è ostile e quindi distante.
Questa relazione è però ciò che ci auguriamo venga sempre cercato, benché possa risultare faticoso.

I resti di un incidente sono sempre da mettere in ordine. Dopo lo Schianto lo spettatore creativo aspetta ancora Batman.

 

SCHIANTO

ideazione e regia Stefano Cordella
drammaturgia collettiva
con Francesca Gemma, Dario Merlini, Umberto Terruso, Fabio Zulli
disegno luci Stefano Capra
sound design Gianluca Agostini
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
assistente alla regia Noemi Radice
organizzazione Valeria Brizzi, Carolina Pedrizzetti

Teatro Binario 7, Monza
20 gennaio 2019

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