LAURA NOVELLI |Scritto tra il ‘28 e il ’40 e pubblicato postumo tra il ‘66 e il ‘67, Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov è uno dei capolavori indiscussi della letteratura di tutti i tempi e uno dei più famosi romanzi russi del Novecento. Montale lo definì «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione». Sia che lo si legga prevalentemente come un’allegoria dai toni mistici, sia come una satira socio-politica, sia come una commedia dark, la complessità di cui si nutre la triplice trama del romanzo tiene insieme queste differenti sfumature interpretative dall’inizio alla fine, rendendolo giocoforza un grandioso affresco sulla vertigine del Mistero e dell’Immaginazione.

Materia dunque incandescente, che la drammaturga Letizia Russo e il regista Andrea Baracco hanno coraggiosamente tradotto in uno spettacolo molto impegnativo a livello produttivo, che vede in scena un cast di ben undici attori e che, debuttato a settembre scorso al Teatro Cucinelli di Solomeo – e passato poi per piazze importanti quali, tra le altre, Venezia, Catania, Prato, Udine, Trieste, Lugano, Cesena –, è ora in cartellone all’Eliseo di Roma.

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Una sfida dunque sospesa tra la fissità della pagina letteraria e il bios del linguaggio teatrale dove – complice il ruolo fondamentale dello Stabile dell’Umbria – si rinnova il felice connubio di scrittura scenica e di visione registica già sperimentato nell’adattamento di Madame Bovary (2016) e relativamente al quale si ripropongono, a livello teorico e pratico, le questioni sostanziali sottese sempre e comunque a questo tipo di trasposizioni mutuate dalla letteratura. Basti citare, ad esempio, certi capolavori di Luca Ronconi come Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, I fratelli Karamazov e  Lolita,  o I demoni  di Peter Stein, fino al  più recente Francamente me ne infischio in cui Antonio Latella ci ha proposto una versione assai originale di Via col vento).
Lo stesso Baracco ci ha spiegato la genesi di questa interessante operazione.

Come è nata l’idea di questo spettacolo?

Era da tempo un progetto che stava molto a cuore sia a me sia a Letizia Russo. Dopo aver lavorato insieme all’adattamento teatrale di Madame Bovary, ci eravamo ripromessi di affrontare la scrittura e l’immaginario di Bulgakov. Quando ho parlato della nostra folle intenzione a Nino Marino, da poco direttore dello Stabile dell’Umbria, questi ha reagito con grande entusiasmo e così siamo partiti per la nostra nuova avventura.

In particolare quali aspetti de Il Maestro e Margherita affascinavano Letizia e te?

Innanzitutto era un romanzo che entrambi avevamo amato molto come lettori.
Poi si trattava di un tipo di struttura e di narrazione che alzava la soglia della difficoltà, anche drammaturgicamente e teatralmente parlando, rispetto all’esperienza precedente della Madame Bovary perché, mentre nel romanzo di Balzac c’è una linearità narrativa tutto sommato semplice, chiara, l’opera di Bulgakov si presenta come un patchwork di lingue, stili, colori, personaggi, ambientazioni, registri diversi.
Come è noto, la trama prevede la compresenza di tre storie parallele e incastrate tra loro. Inoltre, il complesso delle vicende rimanda l’idea di un mondo onirico, folle, paradossale. Un mondo di streghe, demoni, presenze misteriose.

Per la vostra costruzione teatrale vi siete basati su precedenti allestimenti?

Alcuni anni fa avevo visto un interessante allestimento del regista polacco Krystian Lupa ad Avignone e ho scoperto che in alcuni Paesi, come proprio la Polonia, questo romanzo è molto rappresentato. Qui da noi invece non è stato portato in scena che rarissime volte. Più che altro il mio immaginario rispetto a questo libro si è formato sulla base di alcune versioni televisive.

Su cosa vi siete maggiormente concentrati sia nella scrittura dell’adattamento sia nelle scelte registiche?

Letizia e io abbiamo deciso di lavorare essenzialmente sui concetti di Demoniaco e di Mistero. Si è trattato di una scelta abbastanza organica per entrambi; scelta che ci ha portati a rinunciare all’aspetto per così dire storico-politico (alludo alla situazione dell’Unione Sovietica negli anni Trenta) di cui c’è comunque un forte riverbero nel libro. Abbiamo preferito soffermarci sugli aspetti filosofici dell’opera e soprattutto sui temi universali, come il concetto di Bene e Male, che vi si ritrovano.
La domanda centrale cui cerchiamo di rispondere con questo lavoro credo sia riassumibile così: cosa accade quando il Mistero entra in campo in una comunità che lo rifiuta per ideologia? In fondo proponiamo una riflessione sul concetto di Caos, su quanto l’uomo non sia padrone della su esistenza anche quando – come era il caso dell’URSS stalinista – si vive dentro una prospettiva politica che vuol far credere di poterlo essere.

Lo spettacolo si regge su una coralità di presenze nella quale gli attori principali ricoprono ruoli impegnativi, condividendo questa esperienza professionale con interpreti molto giovani. Come è stato lavorare con un cast così composito?

Sicuramente, oggi come oggi, poter dirigere una compagnia di undici elementi è un privilegio. E ringrazio lo Stabile dell’Umbria per aver creduto in questa operazione.
La maggior parte degli attori più giovani, che interpretano diversi ruoli, provengono proprio dalla Scuola di questo Stabile. Si tratta di nuovi talenti che già fanno compagnia e che vengono seguiti, nel loro percorso formativo, da Antonio Latella. Li ho scelti seguendo un laboratorio e vedendoli lavorare. E credo che per dei giovani che si affacciano al mestiere avere l’opportunità di partecipare ad uno spettacolo complesso, che li ha messi a contatto con un testo non facile e che ha goduto di una lunga tournée, sia stato un passo importante per la loro crescita umana e professionale.

A livello teorico e critico come avete riflettuto sui personaggi principali?

Per prima cosa ci siamo chiesti chi fossero realmente questi personaggi così complessi che Bulgakov descrive. Ci siamo concentrati in modo particolare su Woland/Satana (Michele Riondino) e la sua combriccola di burocrati un po’ gogoliani. Tra tutte le figure del romanzo questa credo sia la più articolata e complessa.

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Quale tipo di diabolico rappresenta?

Direi che, pur avendo presente tante raffigurazioni cinematografiche, letterarie, iconografiche e teatrali di Satana, Riondino sia riuscito a costruire un personaggio del tutto originale. Di certo è impossibile evitare il confronto con il Faust di Goethe che è notoriamente l’opera cui maggiormente Bulgakov si è ispirato. Nel Faust, tuttavia, Satana appare quasi come una creatura rassicurante, elegante, raffinata. Noi abbiamo preso una direzione assai diversa. Questo Mefistofele di Riondino è infatti più tipicamente maligno, sinistro, animalesco direi.

Nel variopinto quadro umano che si tratteggia nella pièce, oltre a Woland, che importanza rivestono il Maestro (Francesco Bonomo), Margherita (Federica Rosellini) e Jeshua (Oskar Winiarski)?

Queste tre figure sono quelle più definite, più emblematiche. Rappresentano tutte l’Umano, ovviamente in modi molto diversi e con stili narrativi e recitativi altrettanto differenti.
D’altronde, questo libro/spettacolo io lo vedo proprio come un grande affresco di umanità: un abito di Arlecchino in cui ci sono tutti i colori dell’essenza umana.

L’impianto scenografico e lo spazio agito dagli interpreti sono molto particolari. Ce li potresti descrivere brevemente?

La scena è concepita come fosse una grande lavagna nera con dieci porte da cui i personaggi entrano ed escono pressoché di continuo. Si tratta di un meccanismo a orologeria che intende restituire l’idea di una struttura senza respiro, senza cesure tra una scena e l’altra. Uno spazio sempre in movimento dove poter assorbire le trecentocinquanta pagine nelle quali il libro snoda una storia scandita in soli tre giorni. Questo impianto, in definitiva, ci permette di dare il ritmo giusto al meccanismo stesso, intrecciando le varie storie e i diversi piani che agiscono nella trama.

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L’idea della lavagna funziona poi anche come supporto per scritte e parole su cui far confluire l’attenzione del pubblico. Sbaglio?

Sì, è così. Gli attori stessi scrivono sulla lavagna frasi tratte dal romanzo o dal testo di Letizia o dal Faust e ciò ci permette, in modo brechtiano, di straniare l’azione, di problematizzare i temi di cui parliamo.
La scrittura a vista è poi, se vogliamo, anche uno stratagemma per dire che il Diavolo lascia dei segni nella realtà moscovita e nella società degli intellettuali di allora. E come li lasciava allora, li lascia tutt’oggi ovunque arrivi.

Come ti sembra che il pubblico abbia reagito e stia reagendo al tuo lavoro? 

Sono arrivato alla prima davvero esausto e quella sera non ho avuto modo di notare le reazioni del pubblico. Debbo dire, però, che nelle repliche successive e anche qui a Roma il riscontro è eccellente.
Certamente posso contare su un ottimo cast ma già la storia di per sé risulta piuttosto avvincente. Credo piaccia soprattutto perché attraversa tanti registri diversi, dal tragico al comico, dal farsesco all’onirico. Letizia ha fatto, inoltre, una grande lavoro di scrittura e ha compresso in tre ore tutte le sfumature del libro. La storia c’è tutta e il pubblico riesce a coglierne il senso.

Ciò dipende ovviamente anche dall’attualità del romanzo e, di conseguenza, dello spettacolo. Perché lo possiamo definire un lavoro attuale? 

Allora, distinguerei due tipi di attualità in questo Maestro e Margherita. Mi sembra che lo spettacolo abbia un’intrinseca attualità di natura prettamente teatrale. Mi spiego. Si tratta di un meccanismo scenico quasi antico dove cioè, attraverso espedienti e mezzi semplici quali il corpo degli attori, l’immaginazione azionata nel pubblico ed effetti speciali elementari, si riscostruisce un mondo di fantasia straordinariamente ricco. Sembra paradossale ma è proprio così: un ritorno alle origini, alla natura stessa del teatro.
Poi c’è un’attualità per così dire tematica, e questa riguarda il senso di umanità sotteso alla storia. A tale riguardo è la figura di Margherita la chiave di tutto. Ella rappresenta la forza di chi sente cosa debba essere la propria esistenza e combatte fino alla fine per assecondare il suo desiderio. Anche quando il Maestro fugge e la rinnega, lei segue il suo sentimento, si vuole ricongiungere con lui e accetta persino la violenza dell’ingresso nel Mistero. Una stessa idea di grande umanità ispira pure la figura di Jeshua/Gesù che qui, quando sta davanti a Pilato e viene processato, si mostra come un uomo comune, uno che vuole salvarsi. Proprio come avrebbe fatto ciascuno di noi.

Tra qualche giorno arriva al Teatro India un’altra tua regia, Il racconto d’inverno di Shakespeare, di cui hai curato anche l’adattamento insieme con Maria Teresa Berardelli. Altri progetti all’orizzonte?

Ho in ballo un nuovo progetto con lo Stabile dell’Umbria che prevede l’allestimento di un altro grande romanzo della letteratura mondiale. E poi prosegue la mia felice collaborazione con la compagnia Mauri/Sturno. Ma è ancora presto per svelare di più.

 

IL MAESTRO E MARGHERITA
di Michail Bulgakov

riscrittura di Letizia Russo
regia Andrea Baracco
con Michele Riondino nel ruolo di Woland, Francesco Bonomo Maestro/Ponzio Pilato, Federica Rosellini Margherita
e con Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe, Oskar Winiarski
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Simone De Angelis
musiche originali Giacomo Vezzani
foto di Guido Mencari

produzione Teatro Stabile dell’Umbria
con il contributo speciale della Brunello Cucinelli Spa in occasione dei 40 anni di attività dell’impresa

Teatro Eliseo, Roma
22 gennaio 2018 – 3 febbraio 2019

Teatro Asioli, Correggio (RE)
5 e 6 febbraio 2019