MARIA CRISTINA SERRA | La Grande Depressione americana degli anni Trenta. Un esodo biblico di migranti dalle città alle zone rurali del Middle West e della Californa. Poche cose sono in grado di testimoniare e rendere tangibile l’idea della separazione lacerante dal luogo in cui si vive e che si deve lasciare per necessità. Camus spiega bene questo “senso di straniamento” della condizione umana: «Soli e senza speranza davanti al provvisorio. Sotterranea scorre la volontà di riscatto; silente ma vitale. Nulla consola della vita, come la vita».
Dorothea Lange (1895 – 1965), fotografa documentarista, antropologa dell’immagine, abbandona allora il suo studio di San Francisco, per ritrarre i protagonisti di questo dramma: «parto senza alcuna organizzazione di pensieri su ciò che vado a raccogliere, ma con la volontà di imprimere in pellicola le loro radici strappate, le loro peregrinazioni».
Incertezza, solitudine, rifiuto, peso di vivere sono il prezzo che fette di umanità pagano ancora oggi per far parte della marginalità del mondo. La miseria è scandalosa, fa paura. Si tende a cancellarla dal nostro immaginario. Fra il 1935 e il 1938, la Lange immagazzina oltre 130 mila negativi, sceglie con cura le foto che ritiene più significative.
Attraversando le sale della Galleria Jeu de Paume, tempio dell’arte visiva a Parigi, e incontrando con lo sguardo un centinaio di stampe vintage in B/N, il pensiero corre anche al presente. Per un attimo, in controluce, dentro quei magnifici ritratti di donne, uomini e bambini dalle tonalità sottili e rispettosi delle geometrie compositive, intravediamo il caos della cronaca di oggi.
Si fugge sempre dalla povertà; si sfida la morte per sopravvivere. Meglio scendere negli abissi, che soffocare le paure. Steinbeck lo ha raccontato nei suoi libri; la Lange lo ha fissato per immagini. Non è facile catalogare la storia, fare azzardati paralleli. Le straordinarie foto che si susseguono lungo le bianchissime pareti della Mostra, fra pathos e lucidità, si alternano, insieme a paesaggi desolati, sovrastati da cieli immensi, e storie personali.
S’inizia dagli scioperi e dalle manifestazioni dei disoccupati (’32/’34). La massa informe di operai con le gavette fra le mani sporche, in fila per la zuppa, un mozzicone di sigaretta, gli occhi bassi. La desolazione dei corpi dormienti sull’asfalto, il cappello informe come cuscino. I dettagli e le inquadrature sono fondamentali per la fotografa; quanto il contesto circostante. La “marcia della speranza” è spesso ritratta di spalle, in campi lunghi, gli uomini con fagotti legati dallo spago sulle spalle, in una visione prospettica quasi infinita; per dare il senso che il tempo non è statico: è presente e passato insieme.
Dorothea trovò la sua “chiave narrativa” senza indulgenza o malinconia: c’è empatia tra i suoi soggetti e Lei, rispetto, essenzialità e durezza. «C’è uguaglianza tra di noi». Le donne sono i suoi soggetti preferiti, con i loro bimbi in braccio o aggrappati attorno alle gambe, i visetti luridi e gli occhi spaesati.
Una madre di sette figli, al riparo di una tenda improvvisata, è diventata una foto-icona. I contrasti tra luci ed ombre e le posture corporali raccontano le pene. Il teleobiettivo fissa in primo piano il viso della donna, le pieghe delle labbra socchiuse in un sorriso estraniato; è disperazione, dignità, fierezza fra quelle vesti lacere e bucate.
La bellezza statuaria della raccoglitrice di patate ha uno sguardo indecifrabile e volitivo. La giovane mamma che allatta col seno essiccato il suo piccolo è bellissima. Il viso imbronciato, sprezzante, il corpo sinuoso, coperto di stracci risulta elegante.
La fragilità di queste donne diventa la loro forza espressiva. C’è risolutezza. «Unicità di sguardo, orgoglio, autenticità; fra di noi scattò un collante».
Anche solo la narrazione del dramma crea, allora come oggi, legame.
Il video sulla mostra qui di seguito
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