RENZO FRANCABANDERA | Le rivoluzioni nei generi dell’arte spesso non nascono nel genere stesso in cui la stessa diventa più evidente. Tante volte invenzioni scientifiche hanno influenzato o rivoluzionato la letteratura o la pittura. Basti pensare all’uso della camera oscura in pittura dalle prime idee caravaggesche, all’uso che ne fecero poi i vedutisti veneziani per poi arrivare alla fotografia e al cinema.
O l’influenza delle scoperte in psicologia su tutti i generi artistici a inizio del secolo scorso. O forse arrivano a convergere da vie diverse nello stesso tempo, perchè è il tempo in cui l’umanità arriva a manifestare determinati bisogni di autorappresentazione.
La graphic novel è sicuramente un genere la cui potenza espressiva è ancora in via di scoperta. Volumi che hanno portato a vere e proprie rivoluzioni non solo nel genere specifico, ma a molta forma narrativa anche nelle altre discipline artistiche. Nel 1989, sul n.1 della seconda serie di Raw – la storica rivista statunitense dedicata al fumetto curata da Art Spiegelman e Françoise Mouly – appare una breve storia in bianco e nero di Richard McGuire, in 36 vignette, intitolata semplicemente Here.
La rivoluzione che questa vicenda ha impresso al genere graphic novel e non solo, è semplice e potentissima. Un luogo, una casa, che fa da sfondo fisso – quello che in musica si chiamerebbe basso continuo – in cui McGuire scardina completamente la tradizionale narrazione lineare giocando su uno sfondo spaziale fisso, una semplice stanza, abitata in diverse finestre temporali, in parte parallele, in parte collegate tra loro da segni, intrecci narrativi. Un risultato artistico incredibile che ha ispirato, dapprima, un cortometraggio sperimentale (visibile qui). Ma l’autore dopo 25 anni ha voluto ampliare la breve storia originale in bianco e nero, facendosi ispirare profondamente da quella idea originale e sintetica, trasformandola nel 2014 in un nuovo libro, questa volta a colori, di 300 pagine uscito a dicembre 2014 per Pantheon Books e pubblicato poi anche in Italia nel 2015 per Rizzoli Lizard con il titolo Qui. Ve ne consiglio la lettura.
Ne parliamo a proposito di When the rain stops falling di Andrew Bovell, una drammaturgia che ha debuttato nel 2008 all’Adelaide Festival of Arts e da allora frequentemente rappresentata: l’anno dopo in Europa, nel 2010 negli USA, con grandi riscontri ovunque, e non di rado premi e segnalazioni. Il testo arriva ora in Italia nell’allestimento che ne fa Lisa Ferlazzo Natoli in una produzione di Emilia-Romagna teatro, Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due, ed è uno spettacolo che ha molto a che fare con l’idea creativa di McGuire, sia per ragioni drammaturgiche che per motivi di allestimento.
Innanzitutto il testo dell’autore australiano, noto anche per molte sceneggiature cinematografiche di successo, ha proprio questo tipo di costruzione narrativa: è la storia delle famiglie Law e York rivisitata attraverso una serie di passaggi chiave nel vissuto delle ultime quattro generazioni di padri e figli, delle loro madri e mogli. Si parte come in una saga familiare tipo Buddenbrook, per poi imboccare interessanti sfumature di dramma. Si procede, nel corso del testo, su e giù per l’albero genealogico dell’ultimo secolo, con grande libertà apparente, ma di fatto costruendo via via un intreccio fatto di rimandi, richiami, ma soprattutto di ricorrenze, di modi di dire, accadimenti, che lasciano il senso di una storia dall’andamento circolare, in cui ognuno dei personaggi è quello che è, ma è anche tutto quello che è stato prima e che continuerà a essere dopo di sé. I protagonisti di questa vicenda sembrano passarsi il testimone, legati da abitudini, ossessioni, passioni, atteggiamenti rispetto alla vita, che vanno contro il razionalismo del vivere per cercare quasi un determinismo genetico.
Un interessante gruppo di attori ben assemblato e capace di senso della coralità, costruisce il corpo di una vicenda umana assai delicata a cui la regia aggiunge proprio un nucleo di gesti, piccoli riti, sovrapposizioni, prendendo come spunto gesti e ritualità già presenti nel testo e tali da far convergere la vicenda verso una sorta di inciampo della logica, in cui alla fine tutto sembra in qualche modo ripetersi, richiamando come a un DNA emotivo, di ambizioni e dannazioni di famiglia, nemesi e reviviscenze.
La scena di Carlo Sala si sviluppa su una grandiosa opera grafica che fa da fondale, una specie di vetro su cui piove una pioggia sporca che rende impossibile guardarci attraverso, ma in cui appariranno poi, in controluce, le videoproiezioni di cieli in movimento (disegni video di Maddalena Parise) che si alternano veloci sulle esistenze portate alla ribalta. Un rimando che è nella drammaturgia, in cui i protagonisti a più riprese guardano il cielo, le stelle. Un tema richiamato, poi, sia dall’immagine manifesto dello spettacolo composta da frames video dall’opera “Caelum” di Daniele Spanò, e sia dal ricamo musicale intessuto da Alessandro Ferroni che costruisce un potente riff ambient isolando in loop poche note iniziali di un supercult del dark rock, dal titolo non meno connesso alla faccenda, Push the Sky away di Nick Cave and the Bad seeds, che ad un certo punto si sente comunque integralmente (unica traccia sonora insieme a Oh Mother di Morrisey con gli Smiths).
A chiudere questo riferimento circolare nell’ambiente scenico, il bel disegno luci di Luigi Biondi che, oltre ai classici puntamenti dall’alto e laterali, con alcuni faretti a terra in costante variazione di luminescenza simula il rapido passare di nuvole e luce. Una convergenza di segni non didascalica, che arriva solo dopo un po’ di incastri di informazione che, ovviamente, nell’immediatezza della fruizione, non arrivano istantaneamente, ma emergono poi a testimonianza della compattezza di ispirazioni.
L’arco temporale in cui le vicende si dipanano va da metà Novecento al 2039, quando mangiare pesce sarà diventato un lusso per pochissimi esseri umani, e l’apocalisse sarà vicinissima. Questo il motivo per cui un figlio decide, dopo molti anni, di rivedere suo padre, e farsi dire quali segni famigliari porta in sè. E Marco Cavalcoli (l’ultimo dei padri, Gabriel York), che appare con il suo personaggio solo in apertura e chiusura di spettacolo, darà il via a questa serie di viaggi nello spazio e nel tempo in ordine sparso e frammentato, fra Londra, Adelaide, il Coorong, collegando fra loro le generazioni.
Queste vite, che poi si incrociano e in compresenza scenica diventano fantasmi di un’umanità impossibile eppure tangibilmente ancora viva nelle eredità che tramanda di abitudini, interessi, trova condensazione simbolica in un finale in cui tutti gli attori in scena, intorno al tavolo, per bocca dell’ultimo dei padri e attraverso una serie di oggetti, sembrano vivi a tramandare la loro esperienza a questo ultimo erede, che avrà comunque a che fare con un tempo buio e difficile, ma portando con sè un tratto di parole e segni centenari. Segni che non necessariamente sono segni di bene. Sono anche ferite, sofferenze, assenze, dimenticanze, rimozioni, oblii.
Vive le recitazioni, che, oltrea Cavalcoli, sono di Caterina Carpio, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano. La Ferlazzo Natoli, li dirige con l’idea che cerchino una verità collettiva quasi spirituale, visto che sono sempre in scena a gruppi di due tre persone e devono quindi sempre raccogliere una temperatura emotiva cangiante di replica in replica, raccogliendola in pochi istanti in passaggi di staffetta velocissimi; una temperatura che si regolerà nel suo bisogno di qualche ulteriore sinusoidalità (verso l’alto), solo con l’andare delle repliche e del farsi ancor più famiglia di questi attori.
Lo spettacolo ha sicuramente elementi di notevole interesse, di ordine drammaturgico in primo luogo, per un testo che potrebbe rivelarsi fra i migliori testi stranieri di questa stagione, ma anche per la complessa prova corale, coro di cui fa parte la regia e tutta la squadra creativa. Continuiamo a sottolineare l’interesse che il nostro occhio raccoglie sulle essenziali ma pregevoli costruzioni sceniche del duo di costruzione Gramolini-Fieni, con quest’ultimo a proporre soluzioni di lavori in metallo capaci di trasformare un normale tavolo allungabile in un dispositivo drammaturgico flessibile.
Ci piace l’attenzione con cui è stato approcciato anche il minimo elemento scenico, come la luce arancione del fuoco sotto la pentola. Dettagli, sì, ma di quelli che fanno capire che ci sia pensato. E in un teatro sempre più sciatto, di segni indecifrabili e confusi, questa cura che ha anche dentro uno sguardo femminile molto nitido, è rimarchevole.
Cura, ecco: questo spettacolo, pur con qualche imperfezione nel ritmo nella parte centrale, dovuta sicuramente alle prime repliche e al non facile districarsi fra le vicende e i personaggi, è un lavoro fatto con cura.
Che merita la visione e anche qualche segnalazione.
È fra i pochi allestimenti con una popolazione di attori ancora degna dell’antico concetto di coralità teatrale, è davvero un buon esito di teatro di prosa (e regia), non è il solito testo in cartellone da cent’anni: ad averci un teatro grande e il budget, lo programmerei, sicuro del successo sul pubblico, che infatti c’è.
Sera dopo sera.
WHEN THE RAIN STOPS FALLING
di Andrew Bovell
da un progetto di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Margherita Mauro
con Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano
scene Carlo Sala
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Ferroni
disegno video Maddalena Parise
aiuto alla regia Margherita Mauro
assistente costumista Nika Campisi
assistente alle luci Omar Scala
assistente alla regia volontaria Caterina Dazzi
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Gianluca Bolla
capo elettricista Lorenzo Maugeri
fonico Pietro Tirella
sarta e attrezzista Elena Giampaoli
costumi realizzati dall’Atelier Costumi Fondazione Teatro Due
scene costruite nel Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Marco Fieni (costruzioni in ferro), Riccardo Betti, Gianluca Bolla
scenografa decoratrice Lucia Bramati
fondale realizzato da Rinaldo Rinaldi
immagine manifesto frames video dall’opera “Caelum” di Daniele Spanò
grafica Marco Smacchia
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Fondazione Teatro Due
con il sostegno di Ambasciata di Australia e Qantas
foto di Sveva Bellucci