LAURA NOVELLI | A monte dei loro spettacoli c’è sempre tanto studio ma anche – e soprattutto – un’irrinunciabile dose di istinto. Una specie di intuito emotivo che fa leva sulla capacità/volontà di mettersi in gioco in modo sghembo, libero, nuovo. Un sentire artistico personale ma sinergico con cui Elena Bucci e Marco Sgrosso – ovverosia Le Belle Bandiere – hanno nutrito venticinque anni di carriera insieme collezionando, sin dagli esordi, numerosi successi importanti. Dopo il debutto de L’anima buona di Sezuan di Brecht, la compagnia ravennate ha presentato al teatro Palladium di Roma un lavoro dedicato alla grande letteratura romantica del XIX secolo. Titolo: Ottocento. Una pièce prodotta dal CTB che, vista a Brescia la primavera scorsa, nelle prossime settimane girerà alcuni centri della nostra Penisola.
Per Bucci e Sgrosso (entrambi interpreti e curatori del progetto) si tratta di un ritorno ad autori in parte già attraversati in passato e sicuramente, per l’intensa attrice Premio Ubu nel 2016, si tratta pure di un confronto con quel femminile eroico e moderno di cui la cultura ottocentesca è intimamente pervasa. Basti pensare che la partitura drammaturgica mette insieme qui Maupassant, Čechov, Emily Dickinson, Dostoevskij, Tolstoj, Thomas Mann, Dumas figlio, Balzac, Hugo, passando giocoforza per i fremiti della Nora di Ibsen, le coloriture melodrammatiche di Verdi, i toni cupi di Edgar Allan Poe.
E non è tutto. Perché in questo lavoro, lieve e al contempo solenne, si attraversa proprio lo spirito inquieto e curioso di un secolo ricco di invenzioni, scoperte, cambiamenti, ideali, valori, “pre-sentimenti” dell’angoscia esistenziale che connoterà l’intero Novecento. Vi si ritrovano, insomma, gli umori di un’epoca nevralgica e lo si fa senza cercare leitmotiv comuni o fili rossi tematici. Piuttosto, tentando semplicemente di comporre un puzzle di emozioni intime e collettive attraverso l’umanità di personaggi enormi, le cui parole sono rotolate fino al nostro oggi così smarrito e proprio oggi aspirano a un ascolto rinnovato.

PAC ne ha parlato con la stessa Bucci.

Ottocento_Elena BucciCome mai uno spettacolo sulla grande letteratura romantica dell’800?

Marco e io nutriamo  una grande passione per quel secolo e la sua letteratura. Si tratta del secondo spettacolo all’interno della collaborazione con il CTB e abbiamo colto questa opportunità produttiva per tentare una sorta di esperimento.
Ci siamo immersi dentro grandi personaggi, dentro grandi autori ma abbiamo cercato immediatamente di connetterli ad altri riferimenti. Aprendo il nostro sguardo, siamo approdati alla pittura, all’opera lirica, a quelle energie innovative che hanno caratterizzato un’epoca elettrizzante, speciale, viva.
Ci interessava stabilire una nuova forma di vicinanza con la cultura ottocentesca e provare ad accantonare certi pregiudizi.

In che senso?

Voglio dire che abbiamo sentito il bisogno di andare contro i consolidati cliché per tentare di dire qualcos’altro. Certamente abbiamo provato emozioni stupende nel rileggere queste pagine e anche una certa nostalgia. Ma abbiamo voluto vederle sotto una luce nuova, personale.
La complessità di questa letteratura è ancora più affascinante se si pensa quanto essa sia raffinata e insieme popolare. Chiunque voglia prestare ascolto a queste voci può capirle e, anche laddove la scrittura risulta particolarmente profonda o complicata, ci si accorge che in realtà è rivolta a una platea molto ampia. Lo sguardo di certi autori era davvero capace di allargarsi fino a raggiungere diversi livelli di ascolto.

C’è un motivo dominante che lega i vari testi citati?

Posso dire tranquillamente di no. Forse sembrerà folle ma abbiamo lavorato in un altro modo. L’unica scelta selettiva è stata quella di lasciare fuori l’Italia. Come si nota dagli autori presenti nella drammaturgia, abbiamo esplorato la letteratura europea, abbiamo parlato di un’Europa dove incredibilmente le correnti di pensiero, le novità artistiche si propagavano da uno Stato all’altro con estrema facilità.
C’era una forte senso della comunità culturale. Quella era un’Europa curiosa, vorace. Il confronto con l’attualità è sconcertante. Perché oggi l’Europa, sembra quasi paradossale, è un luogo dove spirano venti gelidi. Dove invece di aprirsi verso gli altri si tende a chiudere. A isolarsi.

Come avete costruito la drammaturgia dello spettacolo?

Potrei dire per isole di interesse, dividendoci tra lavoro a tavolino e improvvisazioni basate su accostamenti quasi istintivi, personali.
Abbiamo cercato degli anelli di passaggio da un libro all’altro, da un personaggio all’altro. Ci sono dei nuclei di testi pressoché intatti e altri completamente rielaborati. Ad esempio, La Dama delle Camelie di Dumas diventa ovviamente la Violetta della Traviata ma insieme con lei ci sono altri dieci personaggi tra cui alcune figure non esistenti.
A un certo punto della pièce compare persino George Sand, che interrompe il flusso delle presenze letterarie, e da lei arriviamo a Emma Bovary.
Insomma, una miscela di riferimenti esistenti e  inventanti. Lo possiamo paragonare a un viaggio nel tempo e nell’immaginario in cui noi due siamo i viaggiatori e “ampliamo” le opere in campo attraverso legami non evidenti.
Direi, in definitiva, che abbiamo lavorato d’intuito, valutando via via se questi legami, questi anelli, potessero funzionare o meno. Per ora ci sembra che il pubblico apprezzi l’operazione. Vedremo cosa succederà durante le prossime repliche.

In questa complessa tessitura di citazioni e anelli di congiunzione, c’è qualche opera o qualche personaggio che ti è particolarmente caro?

Difficile dirlo. Ci si innamora un po’ di tutti. Durante la preparazione dello spettacolo, eravamo così presi dalla lettura di questi libri che ci alzavamo di notte per rileggerne certe frasi. Sono così belli. Anna Karenina, ad esempio, è qualcosa di molto potente, la storia è splendida e il personaggio enorme. Ma anche Le Memorie di una contadina, sempre di Tolstòj, ha una potenza enorme, proprio perché tratta una vicenda popolare. Nel complesso è stato un viaggio davvero sorprendente e meraviglioso.

Ottocento_Elena Bucci e Marco SgrossoTu sei un’attrice molto duttile, sottile, vibrante. Che tipo di interpretazione adotti in questo lavoro?

Di base tengo fede al mio stile consueto. Lavoro molto sull’interiorità e sulle trasformazioni del personaggio. Le rielaboro attraverso di me, il mio corpo e la mia voce, e sicuramente si percepiscono il mio affetto e il mio senso di nostalgia. Questo entusiasmo, senza il quale mi sarebbe impossibile accendere la mia vita interiore, è importante. Tuttavia qui abbiamo puntato entrambi a una maggiore pulizia dei movimenti, dei gesti. Rimaniamo nelle nostre corde abituali ma ci siamo sforzati di raffinare gli strumenti che abbiamo, di adoperarli  di meno, anche se non è facile sottrarsi al piacere di usare le frecce al nostro arco.

Oltre al consolidato lavoro a due con Marco Sgrosso, negli ultimi anni si sono infittite sia le collaborazioni con altre realtà sia la tua presenza di interprete in produzioni firmate da altri registi. Penso, per esempio, alla co-regia de Le smanie per la villeggiatura che avete curato con Enzo Vetrano e Stefano Randisi (compagnia Diablogues) o al fatto che tu sei stata diretta da Valter Malosti ne Il giardino dei ciliegi e da Roberto Latini ne Il teatro Comico. Cosa porta nel vostro essere artigiani del teatro questo scambio con altri artisti?

Questo percorso di incontri e collaborazioni (ci tengo a sottolineare che un conto sono i progetti elaborati insieme ad altre compagnie, come appunto i Diabloglues, e altra cosa è la mia partecipazione agli spettacoi diretti dai vari registi con cui ho lavorato) sta dando moltissimo alle Belle Bandiere.
Soprattutto perché ci si accorge di come, pur mantenendo ognuno la proprio identità, il teatro affratelli sempre e comunque. Ho spesso riflettuto sul fatto che probabilmente chi ama veramente e profondamente il teatro sa mantenere quelle caratteristiche di artigianato, di saper fare che la vira quotidiana rischia di impoverire. Condividere con artisti diversi esperienze professionali e umane rafforza l’idea che la ricchezza di strumenti sia un bene da non disperdere, da trasmettere.
L’unione a teatro fa sicuramente la forza.

Anche perché il teatro è per suo statuto un’arte collettiva, corale. 

Proprio così. Di recente abbiamo realizzato un allestimento de L’Anima buona di Sezuan con nove attori e un musicista in scena. Dunque, un tipo di lavoro molto diverso da nostri consueti. È stata un’esperienza bellissima. Ci siamo trasmessi gioia a vicenda. Ci siamo ispirati a vicenda. E tutto nel rispetto delle specificità di ciascuno.
Ecco, questo senso di contagio reciproco mi fa venire in mente i giovani, la loro energia. Come compagnia noi abbiamo spesso coltivato dei talenti che poi sono cresciuti e hanno preso la loro strada. E anche nel cast di questo Brecht ci sono dei giovani.
Credo che sia indispensabile, vitale, tenere aperte le vie di trasmissione, fare laboratori, allargare lo sguardo sui giovani e i giovanissimi

Ottocento_Elena Bucci e Marco Sgrosso_foto di Umberto FavrettoLo stesso discorso vale per il pubblico. Vengono i ragazzi a vedere i vostri spettacoli?

Non produciamo spettacoli ad hoc per i più giovani. Una volta però abbiamo fatto delle matinée di un lavoro di Thomas Bernhard e abbiamo avuto un pubblico di ragazzi. Erano tutti attenti e reattivi. Segno che il teatro può accendere delle corde importanti nei giovani. Credo sia uno spazio culturale che in Italia vada riconquistato perché i ragazzi non hanno modo di informarsi (in tv, ad esempio, non si parla più di teatro o se ne parla molto poco). Eppure, quando arrivano in sala e trovano qualcosa che risuona nei loro pensieri e nei loro sentimenti, sanno essere degli spettatori straordinari.

E allora, tornando ai tempi della tua giovinezza: dopo tanti anni di lavoro, tanti premi importanti, tante conferme, quale rimane l’insegnamento di Leo De Berardinis che maggiormente ti risuona dentro?

Leo ci ha consegnato gli strumenti del mestiere ma ci ha lasciati liberi di usarli come meglio credevamo e crediamo. Rispetto al suo insegnamento io ho avuto modo di sperimentare questa libertà dopo la separazione da lui e dalla sua compagnia. Ho fatto il mio percorso. Poi c’è stato un ravvicinamento poco prima della sua malattia.
Mi ritengo fortunata ad averlo incontrato perché il senso di libertà che ci ha trasmesso è un valore impareggiabile. Un bravo maestro deve fare così con i suoi allievi.
E il fatto sorprendente è che Leo, malgrado non abbia lasciato libri o pubblicazioni sul suo lavoro, è ancora vivo. La sua voce è viva. Il suo insegnamento e il suo coraggio sono vivi.

Questa libertà creativa che sperimenti con successo da tanti anni come la alleni nel quotidiano?

Naturalmente non ho uno schema di allenamento, per così dire, scientifico. Nei periodi in cui sono in scena o preparo un lavoro, mi sforzo soprattutto di connettere pensiero, intuito, corpo e di tenerli insieme armonicamente. Ma posso dire che questo vale ogni giorno, perché l’allenamento più importante consiste nell’osservazione continua del mondo, nel non abituarsi alle proprie idee, nel provare ad aprirsi a qualcosa di diverso, a rivoluzionare i propri pensieri.
Questo mestiere, al quale ho dedicato la mia intera esistenza, i miei affetti, le mie relazioni, insegna ad allargare lo sguardo. E ciò serve in scena come nella vita.

Nei prossimi mesi avete in programma alcune repliche di Ottocento e de Le Relazioni pericolose. C’è già un nuovo progetto all’orizzonte?

Innanzitutto la ripresa de L’Anima buona di Sezuan. Forse – e dico forse – l’idea folle di un documentario sul nostro lavoro. Di sicuro però abbiamo il desiderio di tornare a Ibsen.

Dunque ancora un autore del XIX secolo?

Sì. Ancora e ancora.

OTTOCENTO

progetto, elaborazione drammaturgica e interpretazione Elena Bucci e Marco Sgrosso
regia Elena Bucci
con la collaborazione di Marco Sgrosso
disegno luci Loredana Oddone
drammaturgia e cura del suono Raffaele Bassetti
macchinismo Carlo Colucci
spazio scenico Elena Bucci
assistente all’allestimento Nicoletta Fabbri
collaborazione ai costumi Marta Benini
realizzazione Manuela Monti
foto di scena Umberto Favretto
una produzione CTB Centro Teatrale Bresciano
collaborazione artistica Le Belle Bandiere

Teatro Palladium, Roma
9 e 10 febbraio 2019

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