ALICE CAPOZZA | I protagonisti e autori dello spettacolo Stanno tutti male, Riccardo Goretti, Stefano Cenci e il musicista Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, hanno debuttato con una settimana di tutto esaurito al Teatro Fabbrichino di Prato. In scena il loro personale ironico, grottesco e tragicomico studio collettivo sull’infelicità individuale, produzione del Teatro Metastasio. La poesia-canzone di Colapesce incontra la pungente penna di Goretti e Cenci e nasce la multiforme comicità di questo spettacolo teso alla ricerca delle ragioni dell’infelicità dell’uomo contemporaneo.
Tutti sentiamo il bisogno di cercare il senso della vita. Dove trovare le risposte? Oggi, dopo la fine delle ideologie, nella crisi della società dell’opulenza, in lotta continua ma inconsapevole con le costrizioni capitaliste, non partiamo più per l’India alla ricerca del Nirvana, non chiediamo risposte alla chiesa, a un guru o al maestro Yoda; all’uomo moderno non resta che interrogare il dio-Iphone e attendere il vaticinio dell’infinito-Google.
L’inedito trio ha dato vita sul web a un vero e proprio “sfogatoio”, chiedendo di confessare, liberamente e senza remore, il motivo per cui “stiamo tutti male”. Tanti sono stati i contributi ricevuti: forse occasione di un depressivo Speaker’s Corner di gente comune, giovane e non, che sta male per amore, per insuccesso, per solitudine, ansia e frustrazione.
Una carrellata di personaggi, trasfigurazione ironica delle risposte alla open-call, rivisitate dalle angosce personali degli stessi autori, prende vita nell’atmosfera squallida di un bar da karaoke, illuminato da led blu e rossi: ambientazione e contenitore dello spettacolo.
Sullo schermo scorrono senza soluzione di continuità le tristi parole delle canzonette pop, a cui Sanremo ci ha abituati: «un’estate al mare voglia di affogare… prendi una donna trattala male… sono un ragazzo di strada… non hai ieri non hai domani…». Al bancone, accomodati su sgabelli di plastica rossa anni ’80, Cenci e Goretti, in completo vintage e occhiali fumè, di volta in volta danno vita agli stravaganti avventori del bar. Ciascuno secondo il proprio turno, avanza nella scena fino all’asta del microfono, canta e parla con un’aria persa nella solitudine di un attimo di celebrità. Nell’angolo destro c’è la postazione del padrone di casa: Doriano-Colapesce, aspirante compositore di musica destrutturata contemporanea, ma costretto gestore del fumoso karaoke tra bicchieri mezzi pieni o mezzi vuoti. Nella differenza di visione di quei “mezzi“ sta la rappresentazione concreta del tema portante.
L’ambientazione del karaoke se da una parte è un pregio perché permette al trio di divertirsi a creare diversi personaggi grotteschi e comici, dall’altra rende lo spettacolo frammentato, come lo scorrere di una time line web, a discapito, forse, dell’omogeneità strutturale.
Ridiamo di gusto alle battute da cabaret dei personaggi, ciascuno esagerato, ciascuno sopra le righe delle proprie nevrosi, ciascuno «in fondo perso dentro ai fatti suoi». Personaggi pronti al suicidio, se non fosse per la miseria della cronaca, come dice il primo di questi: finire in un trafiletto della Gazzetta locale è poco dignitoso, finire per essere un sacco di pelle senza vita, «un peluchone sfitto d’anima» – così definito tra poesia e ironia. Ridiamo, per esempio, dell’idiosincrasia verso lo zampone, oppure della smania di successo che ci fa oscillare tra il sogno di celebrità di Leonardo di Caprio e l’anonimato del signor Nessuno, sposato da tutta la vita con la compagna di banco conosciuta a sei anni, in uno dei monologhi di Riccardo Goretti più riusciti. “Ognuno ha paura di quello di cui ha paura” sentenzia l’uomo terrorizzato dai cani e preda di strane fobie: del caffè decaffeinato, delle verdure, delle carote e dei broccoli.
Si divertono i tre, Goretti, Cenci e Colapesce anche cedendo a qualche tempo di troppo in uno spettacolo che, forse, avrebbe bisogno di essere asciugato in ciò che cede alla risata facile del pubblico.
Ciascun personaggio ci racconta il suo dramma: la paura della morte, l’abbandono, l’horror vacui all’apice del successo, il tempo che passa, il fisico che cede e i bilanci della vita. E il pubblico ride. Ride, forse, perché si sente esente e salvo da tanto squallore.
Ma parliamo di dolore? Ridendo e scherzando, i tre dipingono un’umanità di barchette alla deriva; un’umanità consapevole di un tempo limitato speso in una triste ricerca di senso, e incapace di poter dare una risposta sincera e profonda alla domanda “come stai?”.
Siamo tutti uomini soli, come nel 1990 dicevano i Pooh, canzone con cui un po’ per scherno, un po’ sul serio, il trio apre lo spettacolo. Stiamo tutti male, artisti e spettatori, assistiamo a un teatro dell’assurdo fatto di personaggi la cui comicità e il cui non-sense diventano il mezzo con cui mettere in scena l’angoscia e la follia della condizione umana.
Arriviamo in fondo convinti che il disagio che sentiamo sia inevitabile. Sperimentiamo tutti, prima o poi, nella vita, il buio dei giorni difficili. Malattia dell’età contemporanea, la depressione fagocita il tempo nella ricerca della felicità, annebbia il benessere materiale che ci avvolge, in una società iperconnessa, iperdinamica che all’individuo chiede tempi di risposta sempre più rapidi in una dispersione di sicurezze sociali e affettive.
Ma la felicità passa dalla conoscenza e dalla speculazione filosofica? La comprensione dell’io, connaturata all’essere umano, è piuttosto nella saggezza popolare di uno malinconico e disadorno karaoke? La ricerca della felicità non conduce ad essa. “Spesso il mal di vivere ho incontrato” confessa Montale. Anche Watzlawick lo afferma in Istruzioni per rendersi infelici: questo concetto tanto ribadito, tanto ripetuto, a cui tutti aspiriamo sempre “che sia forse un po’ sopravvalutato? Mica si deve essere felici per forza? Si può essere infelici e fieri di esserlo?” In fondo forse nulla è più difficile da sopportare di una serie di giorni felici, o inconsapevolmente infelici: ricordiamo la profonda solitudine esistenziale nelle parole di Winnie di Giorni Felici di Beckett? Colapesce canta in un ritmo quasi recitato «io la notte ancora sto sveglio a pensare al tempo che ho perso, e ne accumulo altro».
Le utopie, le idee, persino l’arte, non hanno mantenuto le promesse di costruzione di un mondo migliore; la nostra società sempre più individualistica è diventata difficile da abitare, e intanto ci costruiamo continuamente schermi in cui specchiarci, per non guardarci mai veramente in faccia. Siamo tutti degli Hikikomori, rifiutiamo il mondo chiusi nelle nostre paure per non uscirne più. Illusi, forse, che potremmo così sopravvivere al vuoto.
Abbiamo un bisogno disperato di riconoscerci in una canzonetta, in un verso dove cuore faccia rima con amore, di cercare le parole maestre in Rocky, Karate Kid, o in una nuova serie di Netflix, in tutto quel mondo che definiamo di “serie B”, come gli stessi protagonisti suggeriscono all’incontro Talk Show di Sotterraneo al Laboratorio 9.
Ma ridere di questi riferimenti nazional popolari, semplici e un po’ banali, prevedibili e sempre uguali, come sottilmente fanno i nostri tre eroi in Stanno tutti male, non è magari anche un po’ snob?
STANNO TUTTI MALE
Studio collettivo sull’infelicità individuale
di e con Riccardo Goretti, Stefano Cenci, Colapesce
musiche dal vivo Colapesce
foto e videodocumentazione Ivan D’Alì
produzione Teatro Metastasio di Prato e laCoz
PRIMA ASSOLUTA
Teatro Fabbrichino, Prato
9 febbraio 2019