LEONARDO DELFANTI | Un ballerino-cervo che danza nel mezzo della foresta. Un colpo di fucile. Buio.
Il trofeo di un cervo si staglia nel mezzo del palco. Due figure maschili fanno a lotta per il controllo del microfono, una figura femminile, abbandonata su una sedia li osserva immobile.
Così comincia Beast without Beauty di C&C Company che debutterà ufficialmente il prossimo 8 marzo nella rassegna Danza in Rete a Schio.
Abbiamo incontrato Carlo Massari, danzatore e coreografo della compagnia, per parlare assieme di uno spettacolo che disturba il pubblico, uno spettacolo che interroga prepotentemente.
Beast without Beauty è uno spettacolo abbastanza complesso da leggere, come viene accolto dal pubblico?
È uno “spettacolo lasagna”, nel senso che è fatto di più strati che ognuno, in base alla propria cultura, può decidere di approfondire. L’altra sera a Verona una signora mi ha detto “sono proprio contenta perché questa sera sono finalmente riuscita a capire la danza contemporanea”. Fa piacere perché usare il linguaggio, l’alfabeto-danza per raccontare è, in qualche modo, quello che fa il teatro: usare parole per andare a generare un pensiero, un punto interrogativo. La famosa origine del teatro.
Chiaramente per l’Italia è qualcosa di ancora molto nuovo.
Lo consideri un teatro responsabile di quello che porta in scena?
C’è un livello di sperimentazione che deve restare in studio, dopo di che c’è il livello dell’apertura al pubblico dove le persone non devono soffrire, stare male nel momento in cui vengono a vedere un tuo spettacolo. C’è una responsabilità rispetto a quello che dici ma soprattutto per come lo dici.
Non possiamo più permetterci nel 2019 di dire “questo pubblico non mi ha capito, è ignorante”. La nostra responsabilità è quella di riportare il pubblico a teatro, di illuminarlo costantemente su problematiche sociali, possibili soluzioni, riflettere sul positivo, sul “potrebbe essere”. Riflettere su una possibile chiave, una nuova epifania in questo clima di chiusura.
Il teatro, come dici, deve tornare a interrogare. Pensi che la danza possa avere un ruolo in questo senso?
Totalmente, soprattutto perché la danza non avendo l’utilizzo della parola in qualche modo è il linguaggio della comunicazione internazionale. Io ho iniziato danzare dopo la mia esperienza con la prosa. Volevo parlare a molte più persone. Una carezza è una carezza per tutti, ovunque tu la faccia nel mondo, mentre se dici “ti amo” è una frase che va tradotta e declinata in ogni lingua.
Il corpo è una forza che tutti noi abbiamo e ancor più un corpo immobile o intento a fare il suo è molto più interessante che un corpo che usa le codifiche della danza per andare a parlare di concetti astratti.
Una cosa che mi ha colpito molto è il fatto che abbiate scelto di tenere un personaggio fermo sul palco per quasi tutto lo spettacolo. L’ho trovata una grande azione di coraggio.
Coraggio soprattutto dell’attrice. Chiaramente il suo è un corpo che si contrappone al “darsi” dei due personaggi giovani. Un corpo astante che vede il declino di tutto quello che sta accadendo ma che rimane lì impassibile fino a che, alla fine, non va a piangere i suoi figli.
Possiamo dire che rappresenti la figura femminile che vede i propri figli distruggersi tra loro?
È doppiamente interpretabile. Per me quella figura è determinate perché può essere interpretata sia come madre, sia come nazione: la Germania che vede i suoi pargoli ascendere al potere, godere, festeggiare e poi sprofondare nel declino più totale fino all’estinzione. Oppure, più attuale, può essere l’Europa che sta vendendo i propri giovani per il rinascere dei nazionalismi. Si tiene su bene, ha l’acconciatura, le pailettes, osserva tutto questo ma è pronta a un declino, ormai è sfatta, asfittica.
Il trofeo con la testa di cervo che esponete in scena ha un riferimento iconico?
Il cervo ricorre nell’impero germanico come simbolo di virilità e forza. Ci sono foto e video in cui i gerarchi nazisti vanno a caccia di cervi e più ne uccidono più si concretizza l’idea di avere il controllo della natura. Il che è aberrante. Questa simbologia è poi il “farsi trofeo” di questi giovani ariani: esaltati dallo stato ma mandati in guerra per difendere una follia. Cosa che vedo sempre più come vicina e imminente.
In scena vediamo gesti pieni di intenzione ma che poi si risolvono in un fallimento. Come avete lavorato su questo tema?
Sono partito dalla mia anima teatrale, dal lavoro sull’intenzione e sulla parola. Il tutto è partito da una riflessione che ho fatto su Giorni Felici di Samuel Beckett e in generale sulla sua filosofia: il continuo dimenarsi dell’uomo che in realtà lo conduce a sprofondare sempre più nelle sabbie mobili.
Il gesto è qualcosa che faccio per protendere ma che in realtà mi farà implodere. Ne è un esempio all’inizio il lavoro con il microfono: rappresento una figura hitleriana sommersa e fatta fallire da un microfono che non funziona. È il rapporto tra l’uomo contemporaneo e il potere che ci sentiamo tutti di avere, quello tecnologico, che in realtà appena non funziona internet crolla rovinosamente. Il mondo virtuale, il nostro.
Si tratta di giocare con degli stereotipi, dei cardini dell’immaginifico per raccontare l’oggi. C’è una continua lotta intestina per cui questi due elementi, il biondo e il moro, sono avvinghiati in un amore ai limiti del morboso e della violenza: è una gara nella quale già sappiamo che si estingueranno.
BEAST WITHOUT BEAUTY
di Carlo Massari
produzione C&C, TCVI “Danza in Rete Festival”
con il supporto di CID Oriente-Occidente Festival, CSC Centro per la Scena Contemporanea, Piemonte dal vivo-Lavanderia a vapore, Abbondanza-Bertoni Company Komm-Tanz, Residenza I.DRA. & Teatri di Vita Progetto CURA, Arteven-Prospettiva Danza Teatro, Mosaico danza-Interplay Festival
con Carlo Massari, Emanuele Rosa, Giuseppina Randi
Teatro Stimate di Verona,
6 febbraio 2019