DAVIDE NOTARANTONIO | In un saggio di Francesco Mangiapane sul fenomeno di Peppa Pig, edito da Doppiozero, si cerca di esplicare i motivi del successo del cartone animato britannico tramite un’analisi semiotica delle sue caratteristiche, mettendole in relazione con la realtà sociale europea contemporanea. Mangiapane, nell’analizzarne l’universo immaginifico, ritrova una città-modello “ideale” di un sogno borghese, dove ogni abitante ha la propria casa, isolata da quelle degli altri, e svolge il lavoro più adatto alle proprie capacità. Insomma tutti vivono felici, hanno un posto nel mondo, sono allo stesso livello sociale; non esistono la povertà, la criminalità, tutto è perfetto. Un mondo bellissimo se visto con gli occhi di un bambino o di un moderno genitore trentenne e occidentale.

Se visto invece con gli occhi di Davide Carnevali, no. Il mondo di Peppa Pig è in realtà subdolo, istigatore di false speranze sulla realtà delle cose. Bisogna ricostruirlo. Anzi, prima decostruirlo. Meglio, farlo a pezzi. È così che nasce il brillante monologo Peppa Pig prende coscienza di essere un suino, con Fabrizio Martorelli in scena. Dopo le sue varie rappresentazioni dal 2016 a oggi – dentro e fuori il più ampio progetto di Carnevali, Maleducazione Transiberiana –, a febbraio 2019 ha raggiunto il Teatro Argot Studio di Roma in una versione più estesa e completa.

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Due storie, parti dello stesso universo narrativo: nella prima, un uomo, giovane padre single, racconta la sua “missione educativa” nei confronti della figlia piccola, appassionata del cartone animato Peppa Pig. Lui, mal sopportando i messaggi fuorvianti di cui la maialina si fa portatrice, decide di realizzare un filmato e farlo visionare alla figlia: Peppa Pig rapita e portata in un mattatoio dove viene sgozzata e fatta a pezzi per essere poi venduta al banco frigo di un supermercato.
Nella seconda parte un uomo con un passamontagna esordisce con un’idea “geniale”: fare soldi con il teatro. Ma non avendo né un nome né un volto noto, prenderà “in prestito” l’identità di un altro per siglare il suo successo mondiale nell’ambiente artistico contemporaneo. Sarà proprio l’incontro con il protagonista della storia precedente a permettergli di iniziare la sua scalata al successo.

L’intero spettacolo è eseguito in un apparato scenografico povero ed essenziale: due tavolini con sopra due telefoni sip – utilizzati per telefonate tra i protagonisti e interlocutori vari –, posti ai lati esterni della scena; una lavagna semovente, usata per una delle esilaranti spiegazioni del papà-Martorelli. L’obiettivo della sua tesi è dimostrare come la casa di produzione sia mossa dall’unico interesse del ritorno economico con la vendita di mercandising del marchio Peppa Pig™. Il filmato della sua macellazione, proiettato sul fondale della scena nello spacco tra la prima e la seconda parte dello spettacolo – ovviamente, senza mostrare nessun maiale sventrato – è la migliore via di purificazione per la figlia dal mondo edulcorato della maialina: la porta nella realtà, che è sanguinolenta, nichilista, apatica.
Padre esasperato ed esagerato, necessità drammaturgica non solo per generare la risata, ma specchio grottesco di una generazione di genitori ossessionata dalla ricerca del corretto percorso pedagogico da intraprendere, dal “metodo di insegnamento”.

Quelle scene non turbano il pubblico, grazie al preciso lavoro di Carnevali: prima di tutto i personaggi non sono identificati da nomi propri, e ciò implica non conoscerne la natura, lo spirito – come affermava Florenskij quando parlava di ‘filosofia del nome‘. In questo modo, si facilita quel meccanismo tipico della comicità – esposto bene e meglio da Henri Bergson nel saggio Il riso – in cui uno spettatore, non empatizzando con la storia, viene coinvolto dalle battute riuscendo a coglierne il senso.
Così, quando nel finale della prima parte, il padre viene arrestato per crimini politici – il filmato, diventato virale contro la sua volontà, è considerato sovversivo – non se ne rimane troppo dispiaciuti. Anzi, crea un perfetto MacGuffin per l’inizio della seconda parte dello spettacolo: il nuovo protagonista in passamontagna, alla ricerca di un nome e un volto abbastanza famosi da poterne trarre uno spettacolo di teatro di successo, finisce per imbattersi proprio nel neo-arrestato papà. La sua immagine è perfetta, tanto che viene stampata su di una maglietta! E così, come un moderno Che Guevara, si riduce a icona pop commercializzata e svenduta, esattamente ciò contro cui ha sempre remato. 

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Da adesso il palcoscenico è occupato da un nuovo “artista”, che fa la sua fortuna grazie a una storia e un volto non suoi, che entra nel giro delle grandi produzioni teatrali, incontra personalità di rilievo – Vittorio Sgarbi, i direttori artistici del Piccolo di Milano e della Biennale di Venezia – dai quali si fa pagare cifre esorbitanti per la realizzazione di performance al limite del ridicolo e del non-sense – come distruggere tutte le opere d’arte della Biennale, o trasformare l’Eataly di New York in un’Esselunga. Eppure, grazie al nome e al volto non suoi, ormai diventato popolare, ottiene sempre un plateale successo, un successo nel quale gongola con avidità.

Una storia ben diversa dalla precedente; diversità marcata da Martorelli con una netta separazione tra stili recitativi e modalità sceniche: nella prima parte la sua postura è dritta, composta, la gestualità fluida e precisa, il ritmo delle battute serrato e veloce; nella seconda si smonta completamente, la postura e il gesto sono trasandati, il ritmo impreciso, salta le parole e balbetta. Rende, in questo, evidente l’inettitudine del falso artista col passamontagna, copertura che non solo nasconde il volto ma ne rivela la psicologia, come una moderna maschera della Commedia dell’Arte: arrivista e cinico, finanche criminale, arriva a giustificare persino l’omicidio come pratica performativa.

Eppure i due protagonisti sono, pur nella loro distanza, protagonisti di vicende che sono facce di una stessa medaglia. L’apprezzamento del pubblico e delle grandi produzioni per l’attività del fenomenale artista, oltre che pungente satira sociale sui gusti contemporanei, è messo a confronto con ciò che si è visto nella prima parte, con Peppa Pig: entrambi idolatrati nonostante il loro essere vuoti, privi di insegnamenti utili a veicolare gli individui al bene comune; anzi portatori di falsi concetti sulla vita e sull’estro artistico.

È quindi l’arte paragonabile a carne da macello? L’affermazione della società capitalista ha irrimediabilmente influenzato la cultura teatrale? Scegliamo quali spettacoli vedere con lo stesso criterio con il quale scegliamo quale carne comprare al supermercato? In Peppa Pig prende coscienza di essere un suino è anche l’attore a prendere coscienza di esserlo: come il corpo di un maiale, quello di un essere umano sul palcoscenico viene sacrificato e scarnificato: una volta dato in pasto al popolo, quest’ultimo ne può assimilare lo spirito oppure, più semplicemente, fagocitarlo in maniera anempatica. Seppur il teatro non ha mai perso il suo carattere ritualistico, ha anche acquisito quello consumistico. Carnevali e Martorelli portano in scena questa ambiguità, la mostrano nella sua versione più caricaturale, perché la risata è la forma più potente di reazione all’ingiustizia sociale.

 

PEPPA PIG PRENDE COSCIENZA DI ESSERE UN SUINO

di Davide Carnevali
con Fabrizio Martorelli

Teatro Argot Studio, Roma
10 febbraio 2019