RENZO FRANCABANDERA e LAURA BEVIONE | Ma l’arte può essere concretamente utile e, magari, aiutare a conoscere una malattia rara? A dimostrare come le svariate discipline in cui si esprimono l’intelligenza e la creatività umane non siano universi a sé stanti bensì vasi costantemente – e felicemente – comunicanti ecco l’installazione Mnemosyne, creata da Effetto Larsen.

La compagnia milanese, nata nel 2007, si è specializzata nella realizzazione di progetti destinati a spazi perlopiù non convenzionali e fondati sulla contaminazione di arte e performance. Per Mnemosyne Effetto Larsen collabora con Reverb, realtà che si occupa di comunicazione, eventi e formazione e che, in questo caso, è stata ideatrice, con il fondamentale supporto di alcune aziende del comparto farmaceutico che ricercano sulle malattie rare, di Voci Sott’Acqua, progetto di sensibilizzazione sulla Fibrosi polmonare idiopatica.

È nata così Mnemosyne, installazione-percorso attraverso il quale i visitatori possono ascoltare i racconti dei malati, dei loro familiari, di medici e di infermieri, scrutarne i volti e condividerne speranze e disillusioni.  L’installazione arriva a Torino, a Camera – Centro Italiano per la Fotografia, in via delle Rosine 18, giovedì 28 febbraio, giornata nazionale delle malattie rare, e sarà gratuitamente accessibile in forma ininterrotta dalle 18 alle 22.

Parliamo con Matteo Lanfranchi di questa creazione performativa e del percorso artistico che l’ha generata.

56-500x400.jpgMatteo cosa vuol dire costruire oggi una struttura performativa, quindi a suo modo spettacolare, intorno allo spunto creativo dato da una patologia? In che modo questa creazione assolve i suoi compiti riguardo al concetto di arte e, se possibile, al concetto stesso di terapia?

Mnemosyne è un progetto performativo strutturato come installazione: consiste nel creare una mappa emotiva a partire dai luoghi importanti per le persone coinvolte nelle varie sessioni. Si tratta di un progetto che ha già girato molto in Italia e all’estero, sempre affrontando temi delicati, come ad esempio i conflitti sociali.
Questa tappa torinese rientra all’interno del progetto Voci sott’acqua, volto a sviluppare consapevolezza attorno alla Fibrosi Polmonare Idiopatica. È la prima volta che decliniamo il progetto per parlare di una patologia, e per farlo abbiamo mantenuto la chiave del successo di Voci sott’acqua, ovvero sostenere i pazienti nel condividere ciò che hanno messo in atto per non abbassare la qualità della propria vita, per non rinunciare a ciò che amano e che li mantiene attivi.
Si tratta di una sorgente di ispirazione straordinaria, materiale ricchissimo per la nostra installazione, che diventa in sostanza uno strumento narrativo.
effetto-larsen-2_700x394.jpgIl pubblico viene condotto a scoprire queste storie, e i performer semplicemente testimoniano quanto raccolto, lo condividono, collocando le singole persone coinvolte in un tessuto narrativo più complesso, come dettagli di un grande paesaggio emotivo.
Sul concetto di arte potremmo discutere a lungo, ma dal mio punto di vista questa versione del progetto riesce a unire due aspetti a me molto cari: l’arte e la sua utilità. Il linguaggio del progetto è pensato per essere accessibile a tutti, per raggiungere tutti, anche chi non sa nulla della patologia o chi non ha mai visto un’installazione. L’arte diventa veicolo, l’aspetto estetico un elemento accogliente, capace di sviluppare nello spazio un tessuto narrativo denso e significativo. Per gli aspetti terapeutici, sicuramente non ci aspettiamo di dare un sollievo diretto alle persone affette da questa patologia, ma l’esperienza di Voci sott’acqua ci insegna che far parlare di loro; dare voce a chi fa fatica a far sentire la propria è un contributo importante.

La vostra è un’indagine che su questo tema si è sviluppata in più episodi. Come si è evoluto il progetto nel tempo e che tipo di feedback avete ricevuto dalle persone che hanno avuto modo di accedere al vostro spazio performativo?

Mnemosyne è uno strumento di rielaborazione e narrazione, declinabile su varie tematiche. Ad esempio in Sri Lanka abbiamo lavorato sulla percezione e sulle difficoltà degli abitanti del luogo in una zona turistica, in Belgio sull’identità degli abitanti di una regione economicamente depressa; alla Reggia di Venaria sui conflitti tra la Reggia e gli abitanti del comune lì attorno.
Tra i feedback più emblematici ricordo quello di un visitatore di un allestimento in Scozia: “Dopo aver visitato l’installazione mi sembra di conoscere questa zona!”. Condividere emozioni aggancia le persone a un livello 64443_Mnemosyne_5._Credits_ph._Laura_Triscritti (1200x806)-696x385.jpgprofondo, genera questa sensazione di “conoscere”, direi anche di riconoscere, di specchiarsi nel vissuto di altri.
Siamo tutti curiosi di ascoltare storie interessanti, proviamo tutti il desiderio di sentirci parte di qualcosa, di sentire di aver contribuito in qualche modo a una narrazione più grande di noi.
Due anni fa siamo stati a La Strada, un festival a Graz, in Austria. Ogni giorno passava almeno un centinaio di persone a visitare l’installazione, e molte desideravano lasciare la propria storia, inserirla nella mappa. Ci siamo organizzati per farlo, e molti ritornavano nei giorni successivi per vedersi sulla mappa, per scattarsi una foto con la propria storia in formato Playmobil. È stata una grande soddisfazione, la conferma che è utile e importante dare spazio ad eventi collettivi che utilizzino l’arte come veicolo per valorizzare i rapporti umani. Questa tappa torinese ripercorre i vissuti emotivi di molte persone che hanno a che fare con una malattia rara: pazienti, caregiver, medici, infermieri, familiari. Quando abbiamo presentato questa versione del progetto a Milano molte persone sono rimaste stupite dalla forza espressa dalle storie, dalla leggerezza e intensità dei contenuti, dalla gioia di vivere condivisa sulla mappa.

Pensi che il nostro tempo rifugga il pensiero della malattia, dello stato fragile? Esiste davvero un tema di integrazione di pensiero da questo punto di vista? In che modo è possibile sanare questa cesura?

Senza dubbio. La malattia suscita paura, la fragilità è vista come qualcosa da evitare e nascondere, anche se fa inevitabilmente parte della nostra esistenza. Non so se sia una caratteristica esclusiva del nostro tempo, sicuramente l’accelerazione che stiamo vivendo non aiuta a lasciare spazio a riflessioni su questi temi. Una delle principali difficoltà di questo progetto è superare la resistenza delle persone a sentir parlare di una malattia rara e grave.
Video-Ascolta-i-pazienti-2-747x420.jpgCi siamo riusciti facendo loro scoprire la bellezza delle storie, la forza di un paziente che per affrontare la malattia ha cominciato a uscire in barca a vela da solo, o di un altro che insegna italiano a bambini stranieri. Abbiamo incontrato persone straordinarie, che sono state anche per noi fonte di ispirazione.
Siamo tutti abituati a pensare agli aspetti più sgradevoli, illudendoci che non pensarci serva ad allontanarli. Personalmente credo nell’accogliere le difficoltà come parte della vita: spesso è difficile, ma cambia la prospettiva delle cose.
Mi interessa molto questa cesura, tant’è che il nostro nuovo progetto, che debutterà in Austria quest’estate, è proprio sulla fine e su ciò che resta. Si chiama After/Dopo, ci stiamo lavorando da due anni, e in questa fase di sviluppo stiamo raccogliendo feedback entusiasti dai partecipanti.
Parlare delle difficoltà serve a riscoprire il valore della vita, della bellezza, delle relazioni.

Effetto Larsen è uno dei pochi collettivi in Italia che si sta muovendo su un codice più spiccatamente dedicato alla Performing Art. A quale tipo di esigenza individuale e di gruppo corrisponde questa esperienza?

Siamo nati nel 2007 come compagnia teatrale, e ci siamo mossi in quel mondo per parecchi anni, sviluppando un nostro linguaggio. La maggior parte di noi arriva dal teatro, che è sempre stato come una casa, artisticamente siamo cresciuti lì.
Nel 2013, esausto dei processi produttivi e del sistema teatrale italiano, ho deciso di dare una svolta decisa, interrompendo la promozione dei nostri lavori in Italia e concentrandoci sulla ricerca artistica e sull’estero. La cosa che più mi mancava era il contatto con il pubblico: prima di qualsiasi difficoltà economica o organizzativa, le difficoltà nel girare con gli spettacoli ostacolavano l’incontro.
Le arti performative senza pubblico perdono qualsiasi senso, è il momento dell’incontro ad avere e dare valore. Ho proposto quindi alla compagnia di aprire le porte della sala prove al pubblico per le alcune sessioni di sviluppo di STORMO, il nostro primo progetto site-specific e partecipativo. È stata una delle decisioni più difficili e più importanti della mia carriera, dato che comportava un vero salto nel vuoto, ma è stata felice, visto che in poco tempo sono stato invitato a far parte di In Situ, un network europeo che si occupa di arte nello spazio pubblico.
Questo ci ha aperto le porte delle collaborazioni internazionali, facendoci scoprire un intero mondo del quale non sapevamo nulla: avevamo trovato una nuova casa, più accogliente e adatta a noi. Adesso siamo considerati tra i gruppi specializzati in questo settore, e stiamo cercando di selezionare partner italiani per svilupparlo anche da noi. È molto difficile, perché le grandi strutture fanno resistenza, e perché, per ospitare progetti come i nostri, i festival e i produttori non possono limitarsi a comprare uno spettacolo, ma devono partecipare allo sviluppo di ogni singola sessione. A livello internazionale in questo senso, da anni, si parla dello slittamento da prodotto a processo: noi costruiamo processi, format che si adattano e che sono ogni volta diversi. È una logica completamente diversa dalla vecchia visione della tournée, e per noi è molto più interessante.
Aprire le porte della sala prove al pubblico è diventato parte integrante del nostro processo creativo, e il nostro campo di azione è diventato molto più ampio.

Tenete spesso dei laboratori basati anche sull’attività fisica, in cui il centro di pensiero si muove intorno all’azione. Cosa ricercaye in queste dinamiche di gruppo?

Il movimento è al centro di STORMO, il nostro progetto sull’intelligenza collettiva. Si tratta di un progetto pluriennale, cuore della nostra ricerca artistica, continua fucina di studio e sperimentazione. Il fulcro consiste nel portare le persone a un reale e profondo ascolto reciproco, dove ci sia molto più spazio per la reazione che per l’azione. In poco tempo il gruppo si ritrova a muoversi come un singolo essere vivente, in maniera analoga a come fanno gli stormi di uccelli. Si apre così una dimensione dove la mente si quieta, lasciando spazio all’intelligenza del corpo, che è sempre estremamente attiva nel quotidiano, ma che siamo poco portati ad ascoltare. Muoversi insieme, senza nessuno che faccia da leader, e in armonia, è un’esperienza nutriente, emozionante, che risveglia memorie antiche e sopite nel corpo.

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STORMO è nato come performance urbana, si è poi sviluppato in percorso di ricerca, e da due anni è diventato una performance di durata, con luci e suono dal vivo ad accompagnarlo. Da tre anni ci viene anche chiesto nelle aziende come team building innovativo – all’epoca io non sapevo nemmeno cosa fosse un team building – e qualche anno fa ha vinto un bando del Comune di Milano come progetto educativo innovativo per bambini.
Anche per me personalmente è un continuo territorio di scoperta: negli ultimi anni stiamo sviluppando un linguaggio coreografico con giovani danzatori, e le sessioni sono spesso aperte a chi desidera lavorare con noi.

Nell’ultimo periodo siete riusciti anche a essere selezionati per un grande progetto internazionale. Ce ne dite qualcosa?

Si tratta di una nuova performance, che sarà presentata in Europa nel 2020. Non si è trattato di una selezione, in questo caso mi hanno dato l’incarico di dirigerla, con il sostegno di In Situ. Ho trascorso sei settimane in Sri Lanka con un gruppo di artisti locali e altri provenienti da Gran Bretagna, Francia, Repubblica Ceca, Australia, Islanda e Kosovo per lavorare sui temi della comunità, dell’identità e dello sviluppo del pregiudizio. Il progetto si chiama The Snowball Effect, e la performance è stata presentata per la prima volta a dicembre 2018 presso il centro internazionale di residenza artistica Suramedura, a Hikkaduwa. I feedback del pubblico sono stati molto positivi e nel 2019 svilupperò la performance attraverso workshop partecipativi tra Francia, Kosovo e Repubblica Ceca.
Lavorare con un team così ampio di artisti è stato a tratti difficile, ma siamo riusciti a creare un linguaggio capace di raggiungere tutti, elemento centrale del mio lavoro. Spero riusciremo a portare il progetto anche in Italia, sarebbe un bel modo di sviluppare attenzione verso i progetti partecipativi.

Torniamo, per chiudere, ancora sull’installazione Mnemosyne e a Voci sott’acqua.
Ti sei mai chiesto se dentro di te o di voi c’è uno scopo auspicabile rispetto alla fruizione di questo spazio? E a voi, come artisti, cosa ha lasciato questo attraversamento?

Ci piace trasformare gli spazi in interfacce emotive, in luoghi di scambio e incontro, ambienti dove l’arte possa essere utile e fruibile. Lo spazio riflette così uno spazio interiore, nel quale resta una traccia dell’esperienza fatta. L’apertura al pubblico ha cambiato completamente la nostra idea di performance, di arte direi: al centro mettiamo le persone, stiamo diventando specialisti nel creare le condizioni perché le cose accadano. È una dimensione nuova. Il direttore di un famoso festival olandese, che è venuto a trovarci a Malta l’anno scorso, ci ha inseriti nella famiglia dei pionieri dell’arte contemporanea, assieme agli altri artisti che esplorano le dimensioni dello spazio pubblico e della partecipazione.
Portare questo tipo di lavoro a Torino, in uno spazio così importante, è un piacere e una soddisfazione.