ILARIA COSTABILE| Se esistesse una lingua adibita al ricordo e ci servissimo della letteratura per individuarla, una lingua con cui è più facile far emergere dagli angoli nascosti della memoria, sentimenti, emozioni, stralci di vita vissuta probabilmente il vernacolo sarebbe la traduzione più sincera e veritiera della nostra anima.

Lo ha capito Rino Marino, drammaturgo e regista della Compagnia Marino Ferracane Sukakaifa, fondata insieme a Fabrizio Ferracane, che da anni scrive testi sospesi in una dimensione onirica, che sfiora il teatro dell’assurdo e in cui la terra di appartenenza, la Sicilia, risulta essere una presenza essenziale e paradigmatica. I due attori sono i protagonisti di quella che le etichette di genere chiamerebbero una tragicommedia dal titolo La Malafesta, presentata al Piccolo Bellini di Napoli, terzo spettacolo dopo i precedenti Ferrovecchio e Orapronobis.

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La scena, curata dallo stesso Marino, si presenta come una stanza adornata di oggetti alla rinfusa: delle sedie in legno messe l’una sull’altra, un giaciglio sfatto ai cui piedi è poggiato un lavabo, culla di un vecchio nebulizzatore e, a fianco alla spalliera del letto,  una sedia che funge da comodino con al centro una sveglia, ferma sulle otto. Un non luogo collocato in un tempo indefinito è l’ambientazione di quest’atto unico in cui si incontrano due uomini, soli, disgraziati, dall’aria confusa e stralunata: Taddarita e Malafesta.

Malafesta, interpretato da Fabrizio Ferracane, bussa alla porta che immaginariamente divide l’interno dall’esterno dell’abitazione di Taddarita (Rino Marino). Da questo momento inizia il loro botta e risposta in un siciliano stretto e trascinante. La voce profonda e graffiante di Taddarita, steso sul letto completamente vestito – scarpe comprese –  e nascosto da una coperta vecchia, si leva dalle profondità di un annoso sonno-veglia per rispondere al compare Malafesta che insistentemente chiede di entrare. Con un vestito elegante, seppur consumato, cappello ombrello e valigia in mano, Malafesta si presenta ospite inatteso a sovvertire la sonnecchiante solitudine del sodale.

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Lezioni di etichetta – o forse sarebbe più opportuno dire rimedi alla «vastaserìa» (da “vastaso”: uomo molto rozzo e trascurato nel vestire e nei modi) – dal sapore grottesco perché impartite da due gentiluomini poco credibili si alternano al racconti delle proprie abitudini come quella del riposare tutto il giorno, che ha ormai assunto le fattezze di un vero e proprio lavoro, o di «tuppuliare» finché le persone non aprono la porta. Si tratteggia, così, un quadro desolante, dove le battute e gli equivoci che ne emergono regalano un sorriso, che nasconde qualcosa di malinconico.
I due sembrano personaggi beckettiani; non sono certo lì ad attendere un fantomatico Godot, ma non si sa cosa stiano aspettando, il senso del tempo che trascorrono insieme. Tra lotte con insetti immaginari inseguiti con tanto di nebulizzatore alla mano, racconti di un tempo e di una Sicilia lontana dal paesaggio bucolico, Taddarita e Malafesta finiscono per parlare delle loro disgrazie, della loro condizione di infelicità.

Quasi gareggiano a chi è più disgraziato. Nessuno vincerà questa gara, ma come se fosse questo l’evento tanto atteso, aprono finalmente la valigia di Malafesta. Una luce abbagliante ne verrà fuori accompagnata da un valzer, suonato da un organetto: luce e suono fungono da presupposto per iniziare i festeggiamenti di un Natale mai celebrato, se non nei ricordi più remoti; un Natale fuori stagione, una festa comunitaria, accogliente e divertente.
Le espressioni corrucciate e frastornate dei due al ricordo del passato si distendono e si aprono in un sorriso nel vedere affollarsi dinanzi a loro i volti dei loro compaesani, nel ricordare i profumi, le melodie. Ballano su questo valzer giocoso, ballano e si fingono chi non sono mai stati.

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La musica man mano si dirada, viene risucchiata dal rumore stesso dei ricordi che prendono sembianze mortifere; l’atmosfera, prima vagamente allegra e allucinatoria, diventa mesta, infernale con i volti che sono ormai fantasmi e l’entusiasmo della festa tramutato in una profonda tristezza. Uno spettacolo surreale che svela una dimensione intima, solitaria, che spesso neanche la condivisione umana riesce a colmare.
Il siciliano nel suo essere malinconico, aspro e pungente a un tempo, rende gli ultimi momenti della rappresentazione ancor più disperati, rabbiosi: rabbia e disperazione sono incarnati perfettamente dai due interpreti, chiusi nella consapevolezza del constatare come quegli attimi di felicità erano stati solo il frutto di un ricordo, una costruzione della memoria e nulla più.

La Malafesta è un racconto intessuto nelle trame del subconscio, della solitudine in cui spazio e tempo si dilatano e una magia inspiegabile avvolge la scena, una magia né bianca né nera, ma che sottolinea quell’atmosfera fiabesca di una vita stentata, in cui i destini segnati dalla sfortuna possono essere dirottati verso qualcosa di migliore: forse basterebbe solo crederci un po’ in più.

LA MALAFESTA

di Rino Marino
con Fabrizio Ferracane e Rino Marino
regia di Rino Marino
musiche di Mimmo Accardo
scene e costumi di Rino Marino
luci di Marino/Ferracane
trucco Anna Barbaresi
assistente alla regia Gianluca Giambalvo
assistente scenografo Liborio Maggio
effetti sonori Antonio Bonanno
produzione Ass. Cult. Sukakaifa 

Teatro Piccolo Bellini, Napoli
20 febbraio 2019

 

 

 

 

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